Quarantatreesimo notiziario settimanale di lunedì 18 settembre 2023 degli italiani di Russia. Buon ascolto e buona visione.
Attualità
In questo notiziario, oltre alle notizie di carattere geopolitico internazionale, prestiamo sempre particolare attenzione a quanto si dica nei media russi con riferimento all’Italia. Ultimamente, ciò diventa sempre più difficile: si tratta o di notizie a carattere prettamente sportivo, oppure di notizie che comunque trovate nei media italiani, non avete bisogno di noi per conoscerle.
Facciamo un esempio da Russia Today. Digitando “Italia” in caratteri cirillici nel loro motore di ricerca interno, si “scopre” che:
Mirančuk potrebbe partecipare alla partita Atalanta – Fiorentina.
La Polonia ha vinto contro l’Italia a pallavolo.
Napoli e Genoa hanno pareggiato.
Mchitarjan ha contribuito alla vittoria dell’Inter sul Milan.
L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, già capo del quartier generale delle forze armate italiane, è stato nominato capo del comitato militare della NATO.
Un aereo delle Frecce Tricolori si è schiantato vicino Torino.
La Meloni ha chiesto all’UE di prestare aiuto per ridurre il flusso dei migranti.
Da Sigonella è partito un bombardiere statunitense B 52 alla volta del Mar Nero.
A Vicenza, un operaio è affogato in una cisterna di vino.
Guardiola, Xavi e Spalletti sono candidati a migliori allenatori dell’anno.
Scontri a Lampedusa tra migranti e polizia.
Probabilmente ce lo meritiamo. Lontani i tempi quando eravamo uno dei principali partner della Russia nell’interscambio commerciale. E per la Russia sono senza dubbio più interessanti non solo Stati Uniti, Germania, Unione Europea, ma senz’altro Brasile, Cina, India. A ciascuno il suo. Comunque, oggi vi riporto quanto ho trovato di interessante in settimana, poca Italia e tanto tutto il resto.
In Russia in questo fine settimana si è votato per gli enti locali. In Italia, ne hanno scritto di ogni. La sintesi è che la comunità internazionale le considera non democratiche. E’ lecito domandare che sia, questa comunità internazionale? Già, perché gli osservatori internazionali sul posto dicono unanimemente il contrario.
Secondo diversi analisti (non meglio identificati, dico io) solo in una piccola regione della Siberia il Partito di Putin potrebbe incorrere in una sconfitta per la riconferma del governatore uscente del Partito Comunista (ma come, i comunisti non sarebbero parte della messinscena?). Lì infatti il candidato di Russia Unita si è improvvisamente ritirato, forse anche per evitare quella che sarebbe una clamorosa e unica sconfitta imbarazzante per il regime dello Zar.
Come è noto, uno zar (da “Cesare”) non viene eletto, si trasmette per sangue. Putin è stato eletto col 77% dei suffragi. Voglio sommessamente ricordare, invece, che, su 27 membri dell’Unione Europea, ci sono 6 monarchie, e cioè la Spagna, il Belgio, la Danimarca, l’Olanda, il Lussemburgo e la Svezia. Il 22%.
Di che regione si tratta? La Chakassia, che i giornalisti italiani non sanno pronunciare e ovviamente non sanno dove diavolo sia. Ed è nella Siberia meridionale, conta una mezza milionata di abitanti. Ad ogni buon conto, non dicono nemmeno chi abbia vinto. Ha vinto un comunista trentaseienne, orrore, peraltro già governatore uscente. Di più, comunista e perciò il 24 febbraio di quest’anno il dipartimento di Stato degli USA lo ha inserito nell’elenco delle persone sanzionate in quanto coinvolto nella “realizzazione delle operazioni russe e dell’aggressione contro l’Ucraina, nonché nella gestione illegale dei territori ucraini occupati nell’interesse della Federazione Russa”, in particolare “per avere incitato alla guerra civile in Ucraina”. Successivamente, il 1 aprile è stato inserito nell’elenco delle sanzioni ucraine perché “sostiene, stimola ed approva pubblicamente la politica della Federazione Russa, tesa ad effettuare azioni belliche e genocidio tra la popolazione civile dell’Ucraina”.
Non proseguo in questo florilegio, parliamo piuttosto di cose serie, e cioè di numeri. La tornata elettorale ha coinvolto un’ottantina di regioni su una novantina di “soggetti di Federazione”. Le elezioni ormai per tradizione durano tre giorni, dal venerdì alla domenica. Si è potuto votare sia nel modo classico, recandosi ai seggi, sia online, in 25 regioni, e anche questo ormai è diventato abituale. Hanno partecipato due dozzine di Partiti, alla faccia degli impedimenti sbandierati in Occidente. Gli elettori delle regioni coinvolte dal voto sono stati 67 milioni, su 150 milioni di abitanti e 110 milioni di maggiorenni.
In 21 soggetti della federazione sono stati eletti i capi delle regioni, in 20 le assemblee legislative locali e in quattro ulteriori elezioni per la Duma di Stato, la Camera bassa. L’importanza del voto è testimoniata anche da attivi tentativi di ingerenza, soprattutto dall’estero, Ucraina in primis, ma poi Georgia, Moldavia, Romania, Polonia, Paesi baltici. Sono stati bloccati circa 30.000 attacchi. Gli osservatori internazionali sono stati 219mila. Di questi, nel Donbass, 33 provenivano da 21 Paesi esteri.
Un quarto degli elettori aveva meno di 35 anni. I diciottenni, che quindi votavano per la prima volta, erano un milione e 300 mila. Prevedibilmente, per un’epoca bellica, il Partito “Russia Unita” ha stravinto, prendendo il 69%; i comunisti hanno preso il 12%; i liberaldemocratici già della buonanima di Žirinovskij, centrodestra, l’8%; Russia Giusta (i socialisti), il 7%; e finalmente “Gente nuova”, un Partito difficilmente collocabile, il 3%. Molto più interessante analizzare le affluenze.
Fondamentalmente e complessivamente, ha votato meno della metà degli aventi diritto. Tutti dicono che è più della volta precedente, ma personalmente continuo a ritenere questa deriva tipicamente occidentale una iattura. Indicativo che, al contrario, nel Donbass abbia votato invece l’80% degli aventi diritto, nonostante i bombardamenti ucraini, segno che le elezioni le apprezzi quando non ti fanno esprimere.
Nella sola Mosca, con 13 milioni di abitanti ufficiali, una ventina reali, poco più di 7 milioni di elettori, hanno votato il 50% degli elettori, di questi online sono stati l’80%. E con questo è detto tutto, su quanto sia andato avanti il progresso tecnologico in Russia. Anch’io, ho preferito votare elettronicamente.
Una piccola chiosa sui referenda dell’anno scorso nel Donbass. Questi riflettevano il diritto dei popoli all’autodeterminazione, la cui forma, secondo la Dichiarazione dei principi del diritto internazionale del 1970, può essere “la creazione di uno Stato sovrano e indipendente, la libera adesione ad uno Stato indipendente o ad un’associazione con esso”.
Più di un centinaio di osservatori internazionali provenienti da Italia, Germania, Venezuela, Lettonia e altri Paesi che hanno seguito il processo di voto hanno riconosciuto i risultati come legittimi. I risultati dei referenda parlano da soli. La stragrande maggioranza dei votanti, il 99% nella Repubblica Popolare di Doneck, il 98% in quella di Lugansk, il 93% nella regione di Zaporož’e e l’87% in quella di Cherson, ha fatto una scelta consapevole e libera a favore della Russia. Nonostante la difficile situazione di sicurezza e le provocazioni del regime di Kiev, la stragrande maggioranza degli elettori ha deciso di votare, dal 76% nella regione di Cherson al 97% nella Repubblica Popolare di Doneck.
C’è un interessante articolo di Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo, dal titolo: “50 anni del colpo di stato in Cile: memoria e lezioni”. I paralleli con l’attualità sono palesi, ve lo traduco per intero.
Cinquant’anni fa, l’11 settembre 1973, in Cile si verificò un evento che sconvolse la comunità mondiale. A seguito di un sanguinoso colpo di Stato, il governo di Unidad Popular fu rovesciato e fu instaurata la dittatura militare della giunta guidata dal generale Pinochet. Foto di aerei da combattimento che pattugliano il palazzo presidenziale della Moneda nel centro di Santiago, così come del presidente legalmente eletto Salvador Allende, negli ultimi minuti della sua vita con un elmetto e una mitragliatrice in mano, difendendo le fondamenta democratiche dello Stato, fecero il giro del mondo.
Gli usurpatori furono stigmatizzati con rabbia dal grande poeta cileno e premio Nobel Pablo Neruda: “boia della storia cilena, iene che strappano la bandiera della vittoria”. Morto poco dopo il colpo di Stato, è giustamente considerato una delle sue vittime iconiche.
Il colpo di Stato nel lontano Cile scosse anche il nostro Paese, dove era molto noto Allende, che più volte aveva visitato Mosca, anche come presidente. L’Unione Sovietica partecipò attivamente alla campagna internazionale di solidarietà con il popolo cileno e diede rifugio a numerosi emigranti politici. Abbiamo chiesto e ottenuto la liberazione del figlio eroico di questo Paese, Luis Corvalán, dalla prigionia in un campo di concentramento, e abbiamo abbandonato un’importante partita di calcio nello Stadio Nazionale di Santiago, trasformato in una prigione e intriso del sangue dei patrioti cileni. Nel nostro Paese hanno cantato le canzoni come tributo a Victor Jara, brutalmente giustiziato: “Venceremos!” e “El pueblo unido jamás será vencido!”
Non ho paura di questa affermazione: la tragedia del Cile è diventata la nostra tragedia, la storia del Cile è diventata una pagina della nostra storia.
Gli eventi di mezzo secolo fa interruppero la tradizione democratica cilena per diciassette anni, divennero uno spartiacque politico nella storia moderna del Paese e impartirono una serie di lezioni importanti al mondo intero per le generazioni a venire.
E’ noto che il Governo di Unità Popolare, guidato dal socialista Allende, salì al potere nel 1970 in seguito alla libera espressione della volontà degli elettori cileni nel quadro della procedura prevista dalla Costituzione della Repubblica. Allo stesso tempo, il progetto di Unità Nazionale aveva un’evidente dimensione internazionale e mirava ad allontanarsi dalla dipendenza straniera e a rafforzare i principi nazionali e latinoamericani. La coalizione di sinistra puntava all’indipendenza politica ed economica del Cile e rifiutava metodi di influenza sui Paesi come la discriminazione, la pressione, l’intervento o il blocco. Avrebbe condotto una verifica e, se necessario, denunciato gli accordi che impongono al Paese obblighi che ne limitano la sovranità. Intendeva mantenere relazioni con tutti i Paesi, indipendentemente dal loro orientamento politico e ideologico. Considerava l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) uno strumento dell’imperialismo nordamericano, chiedendo la creazione di un’organizzazione veramente rappresentativa dei Paesi dell’America Latina.
Tali piani strategici della leadership cilena, ovviamente, hanno creato – se seguiamo la ben nota logica neocoloniale della Casa Bianca – quasi una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. Washington era e continua ad essere disgustata dall’idea stessa che altri Stati abbiano il diritto di scegliere il proprio modello politico e socioeconomico di sviluppo. Possono essere guidati da interessi nazionali, rafforzare la sovranità statale e rispettare l’identità culturale e di civiltà.
Non vorrei approfondire l’analisi della situazione politica cilena e della politica economica del Paese in quel periodo. Questa è una questione puramente interna al Cile e solo il popolo cileno può giudicarla. Ma è ovvio che molte delle difficoltà che il governo Allende dovette affrontare furono, in misura decisiva, non solo “accese”, ma anche generate direttamente dai politici e dalle imprese occidentali.
I documenti declassificati provenienti dagli archivi americani hanno solo confermato ciò che non era un segreto subito dopo il colpo di Stato. Ancor prima che Allende entrasse in carica, Washington stabilì un percorso per la sua rimozione utilizzando l’intero arsenale di ricatti e pressioni politiche. E’ stato fatto ogni sforzo per destabilizzare la situazione interna.
Sono stati utilizzati gli strumenti più estesi: una guerra economica dalle molteplici sfaccettature (compreso l’isolamento esterno e le minacce di restrizioni contro i partner stranieri del Cile); finanziare l’opposizione, le “organizzazioni della società civile” critiche e la famigerata “quinta colonna”; pressione informativa e psicologica e disinformazione della popolazione attraverso i media controllati; stimolare la “fuga dei cervelli”; causare confusione nel movimento professionale; creazione e sponsorizzazione di organizzazioni di estrema destra e gruppi militanti radicali; ricatti politici, provocazioni e violenze contro i sostenitori del nuovo governo. In altre parole, gli americani hanno utilizzato attivamente tutto ciò che in seguito ha acquisito il nome di “rivoluzioni colorate” in forma concentrata.
Lo stesso Allende cercò emotivamente di trasmettere alla comunità mondiale lo stato delle cose allora dalla tribuna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1972. “Volevano isolarci dal mondo, strangolarci economicamente. Paralizzare il nostro commercio di rame, che è il nostro principale prodotto di esportazione, e renderci impossibile ottenere credito estero. Comprendiamo che quando denunciamo il blocco finanziario ed economico a cui è sottoposto il nostro Paese, non solo la comunità mondiale, ma anche alcuni dei nostri compatrioti hanno difficoltà a capirlo, perché non stiamo parlando di un attacco aperto che sarebbe noto al mondo intero. Al contrario, questo attacco viene effettuato di nascosto, in modo indiretto, anche se ciò non lo rende meno pericoloso per il Cile”.
Ora c’è una notevole quantità di materiale di pubblico dominio che denuncia il ruolo sgradevole del Dipartimento di Stato, della Central Intelligence Agency e di altri dipartimenti americani in quegli eventi. Pertanto, si può prendere visione dei documenti declassificati nel 1998 sul “Progetto Fubelt” – operazioni della CIA volte a rovesciare Allende. Il famoso e imparziale giornalista americano, vincitore del Premio Pulitzer Seymour Hersh, nel settembre 1974, fu uno dei primi a rivelare le attività sovversive della Casa Bianca nei confronti del Cile. E nel 1982 ha pubblicato un’inchiesta su questo argomento: “Il prezzo del potere. Kissinger, Nixon e il Cile.” Materiale molto educativo.
Colpisce il cinismo dei politici americani. Secondo i documenti della CIA, il presidente Richard Nixon ordinò quindi che fossero adottate misure per far “urlare” l’economia cilena. L’ambasciatore americano a Santiago, Edward Korry, ha approfondito questo atteggiamento: “Faremo tutto ciò che è in nostro potere per far precipitare il Cile nella povertà estrema e nella privazione. E questa sarà una politica a lungo termine”. Gli americani organizzarono il boicottaggio del rame cileno, un bene strategico dalla cui vendita il Paese ricavava i principali proventi in valuta estera. Hanno congelato i conti cileni nelle loro banche. Gli imprenditori locali iniziarono a pompare capitali all’estero, a tagliare posti di lavoro e a creare penurie alimentari artificiali.
Il rapporto presentato al Senato, “Operazioni segrete statunitensi in Cile, 1963-1973”, mostra che già nel 1971, le transazioni cilene della Export-Import Bank statunitense furono completamente interrotte, e dal 1971 al 1973, i prestiti attraverso la Banca Mondiale fu fermato.
Gli affari americani, infatti, parteciparono direttamente alle operazioni sovversive illegali della CIA. Tra questi c’è la famigerata società di telecomunicazioni ITT, che collaborò con il Reich nazista e che il governo di Allende tentò di nazionalizzare.
Questo modus operandi davvero machiavellico ha permesso a coloro che hanno ordinato il colpo di Stato nel Paese sudamericano di raggiungere il loro obiettivo. E dato il successo del “rodaggio”, questa serie di azioni distruttive è diventata una sorta di modello che Washington e i suoi satelliti continuano a utilizzare oggi in relazione ai governi sovrani di tutto il mondo.
Gli occidentali violano costantemente un principio fondamentale della Carta delle Nazioni Unite come la non interferenza negli affari interni di altri Paesi. In questa serie, il terzo turno elettorale in Ucraina, orchestrato alla fine del 2004, e le “rivoluzioni colorate” in Jugoslavia, Georgia e Kirghizia. Infine, l’aperto sostegno al sanguinoso colpo di stato di Kiev del febbraio 2014, nonché i persistenti tentativi di ripetere lo scenario della presa forzata del potere in Bielorussia nel 2020. Non si può non citare la famigerata “dottrina Monroe”, che gli americani sembrano voler estendere all’intero globo per fare dell’intero pianeta il loro “cortile”.
Un’altra cosa è che una linea così neocoloniale e apertamente cinica dell’“Occidente collettivo” sta provocando un crescente rifiuto da parte della maggioranza mondiale, che è francamente stanca dei ricatti e delle pressioni, inclusa la forza, da parte di sporche guerre di informazione e giochi geopolitici a somma zero. Gli Stati del Sud e dell’Est del mondo vogliono controllare i propri destini, perseguire una politica interna ed estera orientata a livello nazionale e non togliere “le castagne dal fuoco” per le ex metropoli.
Le relazioni diplomatiche russo-cilene furono ripristinate subito dopo il crollo del regime di Pinochet nel marzo 1990. Da allora hanno avuto una tendenza costante a svilupparsi. Sono sicuro che ciò continuerà ad essere vero anche in futuro, indipendentemente dalle tendenze opportunistiche che si impadroniranno dei singoli politici cileni. Abbiamo molto in comune: pagine comuni di storia, il grande Oceano Pacifico, interazioni commerciali ed economiche, scambi culturali, umanitari ed educativi. La Russia è stata visitata nel corso degli anni dai presidenti del Cile Patricio Aylwin, Ricardo Lagos e Michelle Bachelet, che appartenevano a diversi movimenti politici, ma hanno sempre prestato grande attenzione allo sviluppo dei legami amichevoli tra i due Paesi. Non ho dubbi che le tradizioni stabilite da Salvador Allende e continuate dai suoi veri seguaci verranno rafforzate a beneficio dei popoli dei nostri Paesi.
Come vi avevo raccontato, la settimana appena trascorsa ho partecipato al forum internazionale antifascista. Non sto a farvi vedere il video, altrimenti poi avrei dovuto tradurlo. Ecco comunque più o meno quanto ho raccontato.
Il Comune di Milano ha patrocinato una mostra sul battaglione Azov dal titolo Eyes of Mariupol, uno sguardo negli occhi dei difensori di Mariupol. Le immagini, installate in via Dante, ritraggono soldati in uniforme appartenenti al Battaglione Azov, formazione riconosciuta a livello internazionale come neonazista. Basta dare un’occhiata in rete per vedere i militanti sfoggiare tatuaggi e simbologie naziste. E’ così che il Comune di Milano, tanto attento ai diritti, promuove la pace? Questo patrocinio è gravissimo, l’evento andrebbe annullato, in quanto propaganda la guerra come valore e distorce la realtà. La guerra non è un servizio fotografico ma un massacro che va fermato subito. Fuori la guerra da Milano.
I soliti propagandisti atlantisti diffondono falsità sostenendo che l’Azov non sia più una formazione neonazista e che non ci siano prove che Prokopenko sia neonazista. Sanno benissimo che il comandante dell’Azov viene dalla Division Borodač, che ha il totenkopf nazista nel simbolo (letteralmente, “testa di morto”, cioè il teschio con le tibie incrociate), come sanno che veniva messo in copertina nella rivista neonazista Black Sun.
Questa mostra è la prova finale di cosa ci fosse dietro all’antifascismo di facciata del PD e del centrosinistra di Sala: lo sdoganamento e la normalizzazione del neonazismo. La realtà è, invece, la strage dei sindacati di Odessa e la repressione dei partiti di sinistra e degli antifascisti del Donbass.
Il tentativo di normalizzare il neonazismo ucraino in Italia è un processo che è già stato avviato in tutto il blocco occidentale con il supporto di accademici e media pilotati dagli Stati Uniti. E’ vergognoso che Milano, città medaglia d’oro della Resistenza, abbia concesso il patrocinio a una mostra che glorifica di fatto il battaglione Azov, che per sua stessa ammissione fa riferimento a ideologie naziste, ignorando del tutto la popolazione civile e le sue sofferenze. La mostra sembra un inno alla guerra.
Ma altrettanto e forse anche più vergognoso è l'avere autorizzato la diffusione di materiale pubblicitario con il logo del municipio e del comune per mezzo di una locandina con il ritratto del volto di Denys Prokopenko, comandante del battaglione Azov la cui carriera è fortemente segnata dalla militanza attiva nel gruppo ultras neonazista "White Boys Club" supporter della squadra di calcio Dinamo di Kiev.
In merito, riportiamo una lettera del console generale russo Dmitrij Štodin al Sindaco di Milano Giuseppe Sala.
Egregio Signor Sindaco,
Mi permetto di disturbarLa con un argomento stringente.
Ho appreso con rammarico la notizia che il Comune di Milano ha deciso di patrocinare la mostra fotografica “Eye of Mariupol – Uno sguardo negli occhi dei difensori di Mariupol”, autorizzando la sua installazione presso via Dante e il Museo del Risorgimento.
Tenendo conto che senza l’appoggio delle autorità organizzare un tale evento sarebbe stato impossibile, vorrei esprimerLe il mio più profondo sdegno per la decisione del Comune di dare spazio all’unità militare ucraina “Azov”, nota per le sue stragi commesse non solo a Mariupol, ma in tutta la Regione del Donbass. Sottolineo che per la popolazione locale che ha provato sulla propria pelle i crimini di guerra, i militanti del battaglione non sono degli eroi, sono invece degli assassini feroci.
In questi giorni si parla molto di pace in Ucraina. Risulta che la città metropolitana di Milano, uno dei centri culturali, economici e politici più importanti in Europa, dà il palco per esibirsi alle forze più tenebri di matrice nazifascista. Così si scoraggia una soluzione da molti auspicata. Per lo più in questi giorni la popolazione del Donbass ricorda gli 80 anni della liberazione dall’occupazione fascista il 8 settembre 1943.
Se Lei gradisce, gentile Sig. Sindaco, io nei panni di Console della mia nazione a Milano, sono sempre a Sua disposizione.
Immeritatamente, mi considero un linguista pedante. Chi è un linguista? E’ colui che si dedica allo studio delle lingue (o anche soltanto, o in modo specifico, della propria lingua), soprattutto da un punto di vista teorico, sistematico e storico. E’ uno studioso di linguistica, o di glottologia.
Nell’organizzazione di un qualsiasi Stato, esistono delle formulazioni che vengono usate spesso – troppo spesso – senza conoscerne il reale significato, attribuendo loro sfumature positive o negative a seconda delle proprie opinioni politiche. Democrazia, dittatura, autarchia, presidenzialismo, parlamentarismo, regime.
La democrazia, dal greco antico, significa il potere del popolo. Sfido chiunque a trovare un solo Paese in cui il popolo detenga realmente il potere. Eppure, dire a uno che sia democratico è fargli un complimento.
Sulla dittatura, immagino che siamo tutti d’accordo. Eppure, nell’antica Roma il dittatore non poteva durare in carica oltre sei mesi; aveva 24 littori, era nominato su richiesta del Senato dai consoli, più tardi fu eletto dai comizi. In epoca moderna il termine ha continuato a indicare sistemi di governo contraddistinti da una forte concentrazione di poteri nelle mani di un individuo o di un gruppo ristretto di individui. In quest’ultimo caso, si parla anche di oligarchia. Ho sentito chiamare dittatore il presidente tunisino Saïed, giurista, intellettuale, professore di diritto costituzionale. A suo tempo, ho sentito definire tali l’iracheno Hussein, il libico Gheddafi, financo lo jugoslavo socialista Milošević. Ogni tanto, Lukašenko e Putin vengono definiti a turno ultimo dittatore d’Europa. Che almeno si mettessero d’accordo su chi sia l’ultimo e chi penultimo. E naturalmente il nordcoreano Kim Jong-Un.
Se si vuole insultare o screditare un Paese, si parla di autarchia. Eppure, sempre dal greco antico, altro non è che autosufficienza, cosa che non c’entra nulla con l’ordinamento statale. Posto che non esiste né è mai esistito un Paese autosufficiente, poiché mai potrai produrre tutto il necessario in casa, non trovo nulla di disdicevole nel tendere, per quanto possibile, all’autosufficienza.
Un altro insulto è definire un Paese come regime. E’ sufficiente definire tale un qualunque Paese che non ci piace – che non VI piace – affinché questi rischi i bombardamenti a tappeto da parte del democratico giardino fiorito e del suo braccio armato NATO. Eppure, un regime finanziario o fiscale non ha alcuna connotazione negativa, e nemmeno l’ancien régime. Tuttavia, sotto il profilo scientifico il termine è dotato di “polivocità”. Almeno in teoria, l’attribuzione di questo termine ad un certo particolare governo esistente non implica un giudizio di qualche tipo su di esso, ed infatti la maggior parte dei commentatori politici dovrebbe usarlo in modo neutro, cosa che sappiamo non accade. In pratica, soprattutto a livello colloquiale ed informale, viene usato spesso come sinonimo di dittatura o regime dittatoriale. Se vi parlassi di regime della Meloni, non sarebbe a dir poco spropositato?
Ho parlato di giardino fiorito non a caso. Tale definizione – anche un po’ razzista – appartiene a Josep Borrell, circondato e ossessionato dalla giungla che lo circonda. Come sta combinata l’Unione Europea? Come ho già detto, su 27 membri, ci sono 6 monarchie, e cioè la Spagna (da cui proviene Borrell), il Belgio (da cui proviene Michel), la Danimarca, l’Olanda (da cui proviene Rütte), il Lussemburgo e la Svezia. Il 22%. E anche nell’Europa extra-UE, c’è il Regno di Norvegia (da cui proviene Stoltenberg), e soprattutto il Regno Unito (Sunak, Johnson, Trass, Wallace e quant’altri), al quale sono sottoposte anche il Canada (Trudeau) e l’Australia. E’ palese che il monarca svolga le funzioni di capo dello Stato, e cioè di presidente, solo che quest’ultimo viene eletto, non si trasmette per sangue. E non importa nemmeno se venga eletto dal Parlamento, come nel caso dell’Italia, o a suffragio universale come nella stragran parte dei Paesi del mondo, che, giova specificarlo, sono repubbliche presidenziali, non parlamentari. Che poi personalmente io prediliga quest’ultima forma non ha alcuna rilevanza. Sono presidenziali la Russia, gli Stati Uniti, ma anche la Francia. Sì, lo so, mi si dirà che la Francia è semipresidenziale. Beh, esattamente come la Russia, che vi piaccia o meno. E’ presidenziale tutto il Centroamerica, e quasi tutto il continente dell’America Latina, eccezion fatta per Guyana, Suriname (entrambe Repubbliche presidenziali miste) e Guyana Francese (semipresidenziale, essendo tuttora democraticamente colonia della Francia, lo dice il nome stesso).
C’è una tale, o un tale, visto che è transessuale, cittadina statunitense, Sarah Cirillo, che è la portavoce ufficiale delle forze armate ucraine. Ha minacciato per i prossimi giorni attentati a personalità altolocate russe, politici, giornalisti, per il loro sostegno dell’operazione militare speciale russa in Ucraina.
Passano due giorni, e i canali telegram filo ucraini diffondono la balla di un Kadyrov in coma, e giù accuse nei media occidentali mainstream a Putin che lo avrebbe avvelenato. Costringendo Kadyrov stesso a pubblicare un video in cui dopo cena passeggia tranquillamente con moglie e figli. Non ho letto alcuna autocritica occidentale.
Editoriale
La Rimskaja (letteralmente, “Romana”) è la 153-a stazione della metropolitana di Mosca, costruita relativamente da poco, appena poco meno di trent’anni fa, nel 1995, una delle poche senza riferimenti topografici in superfice. Alla progettazione artistica parteciparono due architetti italiani, Imbrighi e Quattrocchi. I rivestimenti e le finiture sono state realizzate con marmi e granito di varie specie e colori.
Il tema è quello dei monumenti caratteristici di Roma, eseguito dallo scultore Leonid L’vovič Berlin, dei “Šestidesjatniki”, che deve il suo cognome (ebreo) al patrigno, mentre in realtà suo padre, armeno, Avetis Sultanovič Mikaeljan (nome in clandestinità Sultan-Zade), fu uno dei fondatori del Partito Comunista Iraniano, fucilato nel 1938.
Tra gli altri suoi monumenti presenti alla Rimskaja, la composizione architettonica “Fontana”, con raffigurati Romolo e Remo da bambini, e quattro medaglioni. E’ l’unica fontana della metropolitana di Mosca, a 54 metri di profondità. E’ presente, inoltre, la lupa capitolina, una madonna, la bocca della verità e l’arco di Tito (che erroneamente viene definito di Costantino: quest’ultimo è a tre arcate, quello di Tito ad una sola, come nel nostro caso), tutti realizzati in maiolica. Anche questo, per la metropolitana moscovita è un fatto unico. Il contorno in maiolica della lupa reca la scritta: “Urbs æterna Romulus Martis filius urbem Romam condit”. Analogamente, per la madonna con bambino: “Santa Maria mater Dei ora pro nobis peccatoribus nunc et in hora mortis nostræ amen” (proprio “Santa”, non “Sancta”). Sull’arco di Tito: “Ante victoria ne canas triumphum”. La bocca della verità è molto diversa da quella della Basilica di Santa Maria in Cosmedin, sembra piuttosto una maschera teatrale simile a quelle di Ostia antica. Anch’essa reca una scritta: “Abundans cautela non nocet pro bono publico ad verum via fert”. Ovviamente, tutti gli errori sono dello scultore.
Nell’atrio non c’è alcun cartello con indicazione delle fermate o dei passaggi da una linea all’altra, presenti invece in tutte le altre stazioni, per non compromettere la prospettiva.
Inizialmente, avrebbe dovuto chiamarsi “Serp i molot” (nelle vicinanze c’era una famosissima omonima fabbrica siderurgica), ma a metà anni ‘90 non era molto popolare intitolare alcunché con definizioni “comuniste” (“Falce e martello”, appunto).
Ma perché proprio “Romana”? Certo, la metropolitana di Mosca ha molte altre fermate intitolate a città, capitali e Paesi euroasiatici, e non solo ex URSS, ma comunque ex Comecon: Bielorussia, Alma-Ata, Kiev, Riga, Praga, Bratislava, Varsavia. Invece, Roma fa eccezione. Naturalmente, si potrebbe supporre che sia un omaggio alla definizione di Mosca come “terza Roma” (dopo Costantinopoli). Non è così. Oltre al già citato “Serp i molot”, un altro nome preventivo era “Meždunarodnaja” (per l’omonima via nelle vicinanze, “Internazionale”, che ora invece si trova vicino al complesso fieristico Ekspocentr e al quartiere di affari “Moscow City”), un altro ancora “Ploščad’ Il’iča”, che è tuttora il nome della piazza su cui sbuca, ed anche della fermata della linea che interseca la Rimskaja. Poi si optò per “ploščad’ Rogožskoj zastavy” (piazza della granguardia – o barriera doganale – Rogožskaja, dal villaggio Rogož’, poi Bogorodsk, ora Noginsk). Molto più banalmente, ci si fermò su Rimskaja quando, oltre a Lev Nikolaevič Popov, vennero coinvolti i due architetti italiani di cui parlavamo all’inizio.
Oltretutto, era una sorta di “scambio amichevole”, abbastanza diffuso in Europa. Sulla nuova linea della metropolitana della città eterna, l’attuale fermata “Cipro” avrebbe dovuto essere “Moscova” (inutile fu spiegare che la Moscova è un fiume, non la città attraversata da quest’ultimo), progettata in cooperazione con degli architetti russi. Non se ne fece nulla, pazienza.
In compenso, “Moscova” è una fermata del metrò di Milano, esistente fin dal 1978: prende nome dall’omonima via in superficie, che deve la sua denominazione a Bonaparte, in omaggio alla partecipazione del Regno d’Italia napoleonico (1805-1814) alla sua campagna di Russia del 1812 ed in particolare alla battaglia di Borodino (prima si chiamava via Santa Teresa). D’altro canto, da una mappa di Milano del 1878 della stamperia Ronchi, sita in via Torino (o in via Durini? Tra il Duomo e il Castello Sforzesco), in via Pattari, dietro al Duomo, risultavano ancora i “Bagni russi”, cioè la banja. Possiamo solo immaginare quanti fossero i russi perché fosse redditizio mantenere un esercizio commerciale del genere.
Infine, a Roma, tra le nuove fermate in progettazione (ma, si sa, i tempi a Roma sono imprevedibili) della diramazione B1, è prevista la stazione “Mosca”, verso la Bufalotta.
Di quale scambio amichevole parliamo? Per esempio, a Praga c’era una fermata “Moskevská”, ora rinominata “Anděl” (“Angelo”), alla cui progettazione partecipò lo stesso Popov della Rimskaja di Mosca. Ma poi a Pietroburgo, Minsk, Alma-Ata, Char’kov, Nižnij Novgorod, Samara, e presto Kazan’, Volgograd, Caterimburgo, Kiev (ora, ovviamente, rinominata Demievskaja, mentre a Mosca nessuno si sognerebbe di rinominare la Kievskaja, e nemmeno la Pražskaja, o la Varšavskaja, o la Rižskaja). Fin qui, però, siamo nell’ex Unione Sovietica. Abbiamo già citato Praga. Anche a Budapest esisteva la fermata “Moszkva Tér” (piazza Mosca), ora “Széll Kálmán tér”. A Varsavia, progettata, non fu nemmeno aperta. Si prevede che invece se ne debba aprire una a Sofia. A Düsseldorf c’è la Handelszentrum/Moskauer Straße.
Musica
Proseguiamo con le canzoni legate in un modo o l’altro alla Russia e/o all’Italia. Vi ho citato l’articolo di Lavrov sul Cile. 7 novembre 2017, centenario della Rivoluzione d’Ottobre. El pueblo unido jamás será vencido in russo. La gente si è alzata tutta in piedi. Guardate bene chi c’è in prima fila: il compianto Giulietto Chiesa.
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