Generalmente, da Mosca, dove vivo nuovamente dall’inizio del corrente millennio, mi limito a raccontare le notizie sulla Russia e sull’Italia che in quest’ultima vengono censurate. Oggi, voglio parlarvi di un argomento che con la Russia non ha nulla a che vedere, o solo incidentalmente.
In questo periodo, si parla molto di Fosse Ardeatine e di antifascismo. Personalmente, ho moltissime motivazioni famigliari e personali per definirmi antifascista. Qualcuno dirà che è un argomento stantio, qualcun altro mi accuserà di fare da sponda al Partito Democratico. Sbagliato! In questo millennio, non faccio e non ho mai fatto da sponda ad alcun Partito rappresentato in Parlamento. Semplicemente, parafrasando Mussolini sui comunisti, il giorno che qualcuno dei Fratelli d’Italia dicesse che fuori c’è il sole e fuori davvero ci fosse il sole, quel giorno avrebbero ragione persino Fratelli d’Italia.
Semplicemente, quand’ero ragazzo, non c’era adulto, in Italia, che non ricordasse personalmente, che non abbia subito, che non abbia patito, a parte qualche farabutto e mascalzone che sia stato dall’altra parte. Perché, come ebbe a dire Armando Cossutta, a chi farneticava di riconciliazione con i repubblichini, non eravamo (e non siamo, aggiungo io) tutti uguali.
Perché mio nonno fu confinato e torturato dai fascisti. Perché mio padre, e, ritengo, anch’io, siamo nati comunisti. Perché mio padre, finché è stato vivo, negli anni ‘10, ricordando quell’epoca, ha scritto: “Ho vissuto una vita dentro lo storico palazzo di Via delle Botteghe Oscure, dove ci davamo tutti del tu e sentivamo tutti, o quasi, di far parte di un’unica grande famiglia. Oggi, dopo la scomparsa del PCI, mi sento smarrito come un terremotato rimasto senza la sua casa”.
Ricordo, nella prima metà degli anni ‘70, quando il nostro insegnante di italiano alle medie inferiori, Giuseppe Placitelli, presidente della squadra di calcio del Fondi, città da cui ogni mattina veniva in treno ad insegnare a Roma a noi, giovani debosciati che alle sue spalle lo prendevamo in giro per il suo marcato accento ciociaro partenopeo, ci portò alle Fosse Ardeatine. Ricordo l’impressione nel vedere quelle 335 tombe in file ordinate. Per chi non lo ricordasse, in via Rasella i GAP fecero un attentato dinamitardo in cui morirono 33 soldati della Polizeiregiment “Bozen”, appartenente alla Ordnungspolizei. Dunque, non erano manco tedeschi, bensì altoatesini. Ciò nonostante, i nazisti applicarono il principio “dieci dei loro per ciascuno dei nostri”. Non uccisero semplicemente 335 italiani, come ha detto la Meloni. In prima battuta, rastrellarono le carceri. Presero tutti gli antifascisti. Troppo pochi. Presero anche tutti gli ebrei. Sempre troppo pochi. Allora presero i delinquenti comuni, generalmente dei banali rubagalline, borseggiatori e affini. E niente, non si arrivava alla cifra stabilita. Finirono col prendere i passanti per strada. Ed il comandante delle SS, il colonnello Kappler, aggiunse cinque uomini di sua iniziativa ai 330 previsti. Li portarono in queste cave, a fucilarli tutti ci misero più di cinque ore. Poi buttati nelle fosse fatte esplodere con la dinamite. Rimasero sotterrati per qualche anno. Tra gli organizzatori, anche Pietro Koch, capo della squadra speciale della polizia fascista di Roma. Di padre tedesco, ma nato e cresciuto a Benevento. Per cosa rimase famosa la “Banda Koch”? Per le torture. I metodi di tortura e le tecniche d’interrogatorio della banda divennero tristemente famosi e, vista la generalità di testimonianze concordi, quasi codificati:
- L’interrogatorio avveniva nella stanza di rappresentanza di Koch alla presenza di numerosi poliziotti;
- Se un arrestato non parlava, cioè non rivelava chi fosse e quale fosse la propria attività politica, le percosse erano immediate con: lo schiaffo scientifico, la capriola (lancio della vittima contro il muro), la corsa (un percorso da denudato dalla doccia alle celle tra due file di poliziotti che colpivano). Perché la violenza mantenesse vigore e forza gli agenti si davano il cambio.
- Le percosse avvenivano con fruste di cuoio, con nervi di bue, con i caricatori (carichi delle cartucce);
- L’isolamento avveniva nel cosiddetto buco, cioè in locali angusti e soffocanti;
- La sospensione dei torturati: venivano legati con corde e issati in modo che il corpo non toccasse terra e lasciati così per ore;
- La doccia bollente: le vittime venivano denudate e spinte con manici di scopa sotto un getto d’acqua bollente;
- Qualche testimonianza ha riferito anche dell’uso del manico di scopa come variante per violenze e abusi sessuali;
- La messinscena dell’esecuzione per terrorizzare le vittime: una vera esecuzione fermata all’ultimo momento;
- Scariche elettriche, usata più raramente.
Uno di quei torturati fu mio nonno. Fortunatamente, mio padre aveva l’abitudine di pubblicare periodicamente alcune sue memorie. Voglio raccontarvi la parte che riguarda quel periodo. Aveva undici anni quando, una notte di dicembre del 1943, gli aguzzini della banda Koch vennero in casa e portarono via mia nonna e mio zio Ezio, diciassettenne. Mio nonno era già stato arrestato per strada. Rimasero soli, mio padre e mia zia Silvana, 15 anni. Per fortuna in quel periodo era ospite in casa la famiglia di una sorella di mia nonna, Cleofe, sfollata da Genzano.
Nella allora famigerata pensione Jaccarino mio nonno, mia nonna e mio zio vennero picchiati e torturati per giorni, ciascuno davanti agli altri. Lo scopo era quello di farli parlare, di costringerli a rivelare i nascondigli della resistenza romana, che in realtà soltanto mio nonno conosceva. Dopo qualche giorno, mio zio venne trasferito a Regina Cœli, mentre mia nonna fu trasferita nella prigione femminile delle Mantellate. Mio zio conservò per il resto della vita una traccia visibile di quei giorni: un dente spezzato da un calcio.
Intanto mio nonno continuò ad essere torturato. Quando perdeva i sensi, lo buttavano in cantina, in un ripostiglio dove non era possibile stare distesi. Dopo qualche ora, lo riportavano di sopra e ricominciavano le torture. Finito l’ennesimo interrogatorio, riprese i sensi nel suo bugigattolo ed ebbe paura di non poter resistere ancora a lungo senza rivelare i nomi dei suoi compagni. Scorse in terra un bicchiere di latta, riuscì a spezzarne il bordo e con quello si tagliò le vene dei polsi e degli stinchi. Quando i suoi torturatori scesero di nuovo, lo trovarono in un lago di sangue e privo di sensi. Era in coma. Lo trasportarono all’ospedale e lì la prognosi fu che difficilmente sarebbe sopravvissuto. Venne comunque ricoverato in corsia. Gli uomini della banda Koch se ne andarono e non lasciarono nemmeno un piantone di sorveglianza, date le sue condizioni.
Quando uscì dal coma, scoprì di trovarsi in una normale corsia del Policlinico Umberto I. Era l’ora della visita dei parenti. Chiese a un visitatore del suo vicino di letto la cortesia di andare a casa sua ed eventualmente di informare i familiari. Ma non era sicuro che ci fosse ancora qualcuno in casa. Ormai in corsia tutti sapevano come quel paziente fosse finito lì. Quella sera stessa venne in casa un giovane che, con qualche imbarazzo e anche con il timore che la polizia lo avesse seguito, disse che nell’ospedale c’era qualcuno, forse un parente, che avrebbe voluto vederli.
Il giorno dopo, all’ora della visita, mio padre e mia zia andarono all’ospedale. Mio nonno stava dormendo. Da qualche giorno non veniva più picchiato e torturato, ma il suo corpo era tutto ricoperto di ecchimosi. Nelle orecchie c’era del sangue secco. Non c’era un centimetro della sua pelle che non fosse nero di lividi. Mio padre si sentì male, provò uno strano senso di nausea, ma fece uno sforzo per non farlo capire e si allontanò dal letto. Andò a una finestra a respirare.
Ancora qualche giorno e mia nonna uscì di prigione. Si ricordò che un suo cugino, monsignor Caraffa, insegnava alla Pontificia Università Lateranense, vicino casa. Allora mia nonna andò a chiedergli se poteva far accogliere mio nonno nel complesso della basilica di S. Giovanni in Laterano, che godeva dell’extraterritorialità. Non c’era posto, perché ormai tutti i vari pezzi di Roma che tuttora compongono la Città del Vaticano erano pieni di rifugiati, ebrei, resistenti, cattolici e non. Tuttavia un posto si trovò.
Così, nell’ora della visita, mio nonno scese in pigiama nel cortile dell’ospedale e, confuso tra la folla di pazienti e visitatori, uscì dal Policlinico e salì su un camion che l’attendeva. Durante l’occupazione tedesca tutti gli accessi al territorio vaticano erano vigilati, da un lato dalle guardie vaticane, dall’altro dalle sentinelle tedesche. Anche il colonnato del Bernini era chiuso da una sorta di staccionata di legno con un piccolo varco al centro, attraverso il quale la gente entrava e usciva liberamente, ma sotto lo sguardo delle guardie svizzere e dei militari tedeschi. Analoga era la situazione delle basiliche extraterritoriali di San Giovanni, San Paolo e Santa Maria Maggiore. Sul retro della basilica di San Giovanni, vicino al Battistero, c’è una cancellata che adesso è sempre aperta, ma che allora lasciava aperto soltanto un varco.
Il camion entrò senza impedimenti in territorio vaticano, come se dovesse fare un trasporto per la chiesa. Mio nonno venne sistemato in un piccolo e stretto corridoio dove c’erano due lettini addossati al muro sullo stesso lato. Il suo compagno di corridoio era un ebreo, Sergio Limentani. Tra i letti e la parete opposta c’erano soltanto pochi centimetri, appena sufficienti per passare mettendosi di fianco. Così, durante tutto il giorno i due occupanti stavano in cortile, all’aperto. Per fortuna, in quei mesi non pioveva. Mio padre andava tutti i giorni a portare da mangiare a mio nonno, passando sotto lo sguardo indifferente delle sentinelle tedesche, che naturalmente sapevano tutto, ma non gli dissero mai nulla.
Mio nonno uscì da San Giovanni il 4 giugno 1944, quando i primi carri armati americani entrarono a Roma e si fermarono sul Piazzale Appio, davanti alle mura aureliane e in vista della basilica. Erano giorni che se ne parlava, e si sparse la notizia che le truppe angloamericane erano finalmente arrivate alle porte di Roma. In realtà si trovavano non proprio “alle porte”, che per i romani sono quelle delle mura aureliane e, in particolare per i “san-giovannini”, quelle di Porta San Giovanni. Tuttavia stavano ormai davvero a pochi chilometri dalla città, ferme in attesa di capire se i tedeschi si sarebbero ritirati senza combattere, o se invece avrebbero trasformato Roma, “città aperta”, in un campo di battaglia. In questo secondo caso, ci si aspettava che il comando tedesco avrebbe proclamato lo stato d’assedio. Questo timore quella mattina indusse tutti i romani a uscire di casa, finché era possibile, a cercare di procurarsi qualche provvista in vista del peggio che poteva accadere.
Scese per strada anche mio padre, a vedere l’arrivo degli americani. Tutte le strade del quartiere brulicavano di gente che si aggirava con l’aria inquieta. Da via Corfinio girò a sinistra per via Magnagrecia, la attraversò e la percorse fino all’angolo con Piazzale Appio, dove voltò a destra per via Appia Nuova. Era da lì, si supponeva, che gli americani sarebbero arrivati. Notò subito che in via Appia Nuova, all’altezza delle prime due traverse, via Veio a destra e via Faenza a sinistra, i tedeschi avevano allestito una postazione di mitragliatrici con dei sacchetti di sabbia posti al centro della strada. Le mitragliatrici erano puntate verso sud. Tornò a casa e sul pianerottolo incontrò mia nonna, indecisa se uscire o rimanere in casa. Il fatto è che nella trattoria di famiglia di Largo Brindisi avevano lasciato il giorno prima un grosso borsone contenente il pane da vendere ai clienti in cambio dei bollini della tessera annonaria. Se fossero stati costretti a rimanere chiusi in casa chissà per quanti giorni, sarebbe stato un peccato lasciar sprecare tutto quel pane. Si consultarono e mia nonna decise che dovevano andare a prenderlo.
Da via Corfinio attraversarono subito via Magnagrecia e imboccarono via Veio in direzione di via Appia Nuova. Era il percorso più breve per arrivare a Largo Brindisi passando per le due traverse, via Veio e via Faenza, che sono l’una la continuazione dell’altra. Giunti però alla fine di via Veio, si accorsero che per continuare in linea retta e proseguire quindi per via Faenza bisognava attraversare via Appia Nuova proprio all’altezza della postazione di mitragliatrici. Si posero subito il dilemma: era più prudente passare davanti alle mitragliatrici o dietro? Le facce di quei tedeschi non erano più quelle pulite, spensierate e sorridenti delle sentinelle tedesche che da mesi stavano in via Sannio a guardia della centrale telefonica e che ogni tanto davano un calcio al pallone con i ragazzini. Quel giorno i tedeschi erano sporchi, brutti e cattivi, avevano una faccia feroce, la faccia di un esercito sconfitto, costretto forse a lasciare la capitale d’Italia senza combattere, oppure a battersi strada per strada in una città ostile, contro l’esercito angloamericano e anche contro la guerriglia dei partigiani. Passare davanti a loro e alle loro mitragliatrici puntate poteva essere considerato un atto di sfida, una provocazione, ma anche a passare alle loro spalle c’era un rischio. Potevano pensare che volessero fare un attentato o lanciare una bomba contro di loro.
Decisero di passare davanti, ma a passo lento. Quelle poche decine di metri sembrò loro che non finissero mai, il cuore batteva forte, la paura era tanta. I tedeschi li guardavano con odio, come ormai guardavano con odio tutti gli italiani. Arrivarono in via Faenza senza problemi, la percorsero e attraversarono Largo Brindisi. La trattoria era chiusa, ma entrarono dal retro, dalla parte del cortile, presero il borsone del pane e ripercorsero la stessa strada in senso inverso. Questa volta, nel passare di nuovo davanti a quelle facce minacciose, avevano un motivo ulteriore di paura: con quel borsone potevano essere scambiati per “borsari neri”, così si chiamavano allora a Roma coloro che si dedicavano alla “borsa nera”, il mercato nero illegale, e magari essere fucilati sul posto. Invece non successe niente.
Dopo qualche ora i tedeschi raccolsero le loro mitragliatrici, salirono sui camion e partirono in direzione nord. Loro intanto erano rientrati in casa.
Nel primo pomeriggio, subito dopo pranzo, era di nuovo in strada, sul Piazzale Appio. Improvvisamente da via Appia Nuova sbucò un carro armato e si fermò al centro del piazzale, davanti a Porta San Giovanni e in vista della basilica. Dalla torretta del carro spuntò un uomo che prese a fare cenni alla gente presente affinché qualcuno si avvicinasse. Sul piazzale c’erano decine di persone, ma tutti stavano prudentemente a distanza di sicurezza. Mio padre stava tra loro e sentiva qualcuno chiedersi e chiedere: “Ma quel carro armato, sarà americano o tedesco? E se facessero finta di essere americani e invece sono tedeschi?”. Poi a poco a poco qualcuno cominciò ad avvicinarsi, ma emerse subito il problema della lingua perché nessuno parlava né tedesco né inglese. Allora un tale disse: “Ma io conosco uno che è stato emigrato in America, abita qui in via Magnagrecia, adesso lo vado a chiamare”.
Tutti si misero ad attendere l’ex emigrato, ma intanto, con il linguaggio dei cenni, si cercò di far capire al carrista che bisognava aspettare. Finalmente l’ex emigrato arrivò, ma si vedeva che aveva una gran paura anche lui. Lo costrinsero ad avvicinarsi al carro armato e a parlare con il carrista. Dopo un breve scambio di battute si rivolse agli altri italiani presenti e disse: “E’ americano”. Roma era libera. Mio padre andò a cercare mio nonno, che da qualche mese, era al sicuro dentro il perimetro della basilica San Giovanni, che godeva dell’extraterritorialità. Tuttavia mio nonno non c’era più, era già uscito, finalmente libero. Nei giorni successivi, per settimane, le colonne della V armata americana e della VII armata inglese percorsero la via Appia, che nell’ultimo tratto urbano fino a Porta San Giovanni si chiama appunto Appia Nuova, tra due fitte ali di folla festante. Particolarmente festeggiati erano gli americani, che lanciavano alla folla tavolette di cioccolata, pacchetti di sigarette, carne e fagioli in scatola, gomme americane, di cui sembrava avessero una scorta infinita. Naturalmente, anche mio padre era tra quella folla festante e portava a casa ogni giorno qualche scatoletta (le gomme americane le teneva per se).
Dopo una settimana, andarono tutti e cinque, l’intera famiglia finalmente riunita, a Genzano per vedere in che condizioni si trovasse la loro piccola vigna. Era meno di un ettaro, frutto dell’”invasione” delle terre incolte negli anni Venti del secolo scorso, che successivamente il governo fascista aveva lasciato in proprietà agli “invasori” a patto che le riscattassero pagando una certa somma. A Genzano, che dista 33 chilometri da Roma, arrivarono con il tram della Stefer o con un pullman, ma poi da Genzano si avviarono a piedi per raggiungere la vigna. Si trattava di percorrere sette o otto chilometri in un territorio devastato dai carri armati americani e tedeschi che lì si erano dati battaglia. I confini di tutte le piccole vigne erano stati cancellati dai carri armati, la strada era piena di crateri provocati dalle bombe, ai lati c’erano montagne di armi e munizioni abbandonate. In quel periodo i vignaioli di Genzano giravano per le campagne a raccogliere i nastri di cotone delle mitragliatrici: i proiettili li buttavano, ma i nastri si riusciva a trasformarli in gomitoli di filo robusto con cui si facevano calzini e calzettoni. A metà strada, sotto il cavalcavia crollato della ferrovia Roma-Napoli, c’era un carro armato tedesco semidistrutto, che dovettero aggirare. A un certo punto mio padre vide davanti a se un elmetto tedesco in mezzo alla strada. Fu quello uno degli episodi più orrendi della sua vita. Infatti, avvicinò il piede destro e, come se fosse un pallone, lo colpì di piatto. L’elmetto rotolò e scoprirono tutti con orrore che dentro all’elmetto c’era la testa di un uomo.
Nei giorni successivi ci fu, lungo quella strada, un altro episodio che colpì la famiglia di una cugina di mia nonna. Anche loro erano andati a controllare lo stato di un terreno e stavano tornando a Genzano, naturalmente a piedi. Erano in quattro, i due genitori, una figlia di quindici anni e un figlio di otto o nove anni. A pochi chilometri dal paese si accorsero di essere seguiti da una decina di militari marocchini dell’esercito francese. I marocchini procedevano a passo svelto e li avrebbero sicuramente raggiunti prima di arrivare al paese. Allora la famiglia allungò il passo, ma i marocchini si misero a correre. A quel punto anche la famiglia cominciò a correre. Genzano era ormai vicina e i marocchini capirono che non sarebbero riusciti a raggiungere in tempo le loro prede. Sapevano tutti nella zona, e forse anche i marocchini sapevano, che Genzano la “rossa”, la “Stalingrado dei Castelli romani”, era stata un centro della Resistenza e che in quei giorni i partigiani erano ancora tutti armati. Così, i marocchini spararono, forse per far fermare i fuggiaschi, o forse per la rabbia di dover rinunciare alle due donne. Fatto sta che uccisero i due genitori e il ragazzo. L’unica che si salvò, perché era la più veloce, la più lontana dagli inseguitori, fu proprio la preda più ambita, la ragazza.
Ho detto all’inizio che le ragioni del mio antifascismo sono non solo famigliari, ma anche personali. Correva l’anno 1979, avevo 17 anni.
Dopo la disfatta del 1948, in buona misura determinata dall’ingerenza diretta degli Stati Uniti e del Vaticano, il PCI non aveva mai perso. Tuttavia, la politica dei piccoli passi ha fatto sì che, ad ogni consultazione elettorale, i comunisti guadagnassero lo zero virgola qualcosa, roba da prefissi telefonici. L’eventuale un percento di aumento veniva giustamente presentato come una portentosa vittoria del proletariato. Tutto sommato, questo andava bene un po’ a tutti: ai Partiti borghesi, DC in primis, che vedevano lontana mille anni luce l’ipotesi di un governo non dico comunista, ma almeno di un governo costretto a fare i conti con una solida opposizione comunista; ma anche ai comunisti stessi, consci che qualunque avanzata troppo irruenta avrebbe inevitabilmente portato ad un intervento diretto degli americani nella vita democratica del Paese, essendo questi ultimi già presenti in forze – militari – lungo tutta la penisola.
Personalmente, sono cresciuto proprio in questa logica, fin dalle mie prime manifestazioni, alle medie inferiori, all’indomani di un altro 11 settembre, che ora tutti sembrano voler obnubilare, quello del bombardamento del palazzo presidenziale La Moneda a Santiago del Cile, nel 1973, pagato anch’esso, come spesso – troppo spesso – nei decenni a venire, dagli Stati Uniti. Sono cresciuto in una famiglia comunista, appunto, con un nonno confinato negli anni ‘20 in tutti i luoghi che ora Berlusconi immagina come amene località di villeggiatura, Favignana, Ustica, Ponza, richiamato a 38 anni alle armi e spedito a Bengasi, torturato dalla banda Koch nel 1943; confinati anche vari suoi fratelli (cinque comunisti su nove fratelli), Lipari, ancora Ponza, Pisticci; un padre che studiò filologia slava all’università di Mosca negli anni ‘50.
Il 15 giugno 1975 il PCI fece un’avanzata strabiliante alle elezioni amministrative. Circa la metà delle regioni, moltissime province e molti comuni capoluoghi di regione finirono in mano alle giunte di sinistra. Questo era il dato nuovo e, allo stesso tempo, denso di incognite: l’anno dopo, il 20 giugno 1976, alle elezioni politiche ci si attendeva finalmente il sorpasso sulla DC. Il PCI guadagnò il 7%, portandosi al 34,4%, ma la DC non solo non arretrò, ma addirittura guadagnò qualcosa e si attestò sul 38% netto. Quello che all’epoca nessuno volle dire, a sinistra (e soprattutto nella cosiddetta “sinistra extraparlamentare”), era che a tradire furono proprio i giovani, da sempre cavallo di battaglia comunista. Facendo una mera sottrazione tra i voti della Camera e quelli del Senato, si aveva il quadro dell’orientamento dei cittadini tra i 18 e i 25 anni. La maggioranza, oltre due milioni e mezzo di elettori, aveva votato per la Democrazia Cristiana. Il Paese era spaccato in due, con tutte le conseguenze che di lì a pochi mesi avremmo tragicamente assaporato.
Giunse la stagione delle contestazioni a sinistra, molte assolutamente giustificate, molte altre talmente pretenziose da ingenerare, non senza ragione, dubbi circa la loro origine, i famosi burattinai. Contemporaneamente, dall’altra parte si invocava un’ingerenza nient’affatto velata del solito amico (ma di chi?) americano. Ricordo ancora una copertina di Panorama (che non era ancora Mondadori e quindi Berlusconi) che sintetizzava le dichiarazioni del presidente statunitense Jimmy Carter: Berlinguer stia al posto suo. Un avvertimento mafioso.
Venne toccato l’apice, il momento più grave e pericoloso, col rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, e la sparizione delle sue carte dal luogo del rapimento ad opera di sconosciuti, nonostante le transenne della polizia. Questo episodio risulta tanto più emblematico se si considera che ministro degli interni era proprio quel Francesco Cossiga, futuro Presidente della Repubblica, che molti anni dopo ebbe a vantarsi del suo coinvolgimento nell’organizzazione golpista e paramilitare di Gladio.
Questo tra marzo e maggio 1978. Alla ripresa dell’anno accademico, in ottobre nelle scuole superiori e nelle università si verificò un fenomeno che ha dell’inverosimile: sembrava infatti che nessuno in vita sua avesse mai fatto politica, tutti in discoteca. Era iniziata la stagione che venne definita quella del “riflusso”. Eppure, tutto continuava al solito, i fascisti ogni tanto accoltellavano a morte qualche ragazzo di sinistra (Ciro Principessa), assaltavano gli organi di informazione di sinistra (Radio Città Futura), ma parevano solo delle schegge impazzite ed anacronistiche.
Fu così che si arrivò alle prime elezioni politiche del dopo Moro, quelle del 3 giugno 1979. Per la prima volta, il PCI perse. Una settimana dopo, per la prima volta nella storia si votò per il Parlamento Europeo, ed il PCI confermò la propria sconfitta. Si era esaurita la famosa “spinta propulsiva”.
Di tutto questo, all’Esquilino, la mia sezione di allora, il 16 giugno si discuteva in una pubblica assemblea, molto accesa, animata, la tensione si tagliava col coltello. Era uno scantinato di fronte ad un cinema porno, attaccato alle ferrovie laziali. Una realtà fatta di ferrovieri, operai della FIAT Manzoni, della Centrale del Latte, di lavoratori dei corsi serali degli istituti tecnici industriali.
Per la tensione, si facevano anche discussioni stupide, per fortuna episodiche, tipo l’impellenza di limitare il fumo nelle assemblee, non tanto per ragioni salutiste, quanto per le cicche in terra, che poi pulivano le compagne.
All’epoca, avevo già iniziato a lavoricchiare, nonostante la giovane età, traducendo in alcune occasioni per dei “colossi” come Pajetta, Amendola, Berlinguer, D’Alema. In un’occasione, in una sala conferenze (non ricordo se all’hôtel “Parco dei Principi”, o qualcosa del genere), avevo visto delle sedie identiche a quelle che usavamo in sezione, con un monoblocco sedile e schienale in plastica e le gambe in alluminio. Tra una sedia e l’altra, sulle gambe, erano incastrati degli appositi portacenere.
Durante l’intervento di Ignazio, un operaio della FIAT Manzoni con l’eskimo, mi alzai dalla mia sedia, feci un metro e mezzo a destra e mi accovacciai di fronte a Luciana, una compagna ventiseienne della segreteria di sezione e moglie del segretario Claudio, per suggerirle sottovoce questa banalissima soluzione.
In quell’istante, nello scantinato mancò la luce. Gli interruttori erano sulle scale di accesso, noi eravamo tutti di spalle, mentre la presidenza dell’assemblea, pur essendo frontalmente rispetto agli interruttori, era impedita nella visione da un angolo. Si sentì un rumore secco, che al momento non avrei definito boato, e da quel momento la vita scorse per interminabili secondi al rallentatore.
In certi momenti, si pensano un sacco di fesserie. Per esempio, io pensai che fosse caduto un armadio. Subito, delle scariche, e pensai ai botti di Capodanno. Solo che era una torrida estate, ed ebbi la sensazione che la mano di un gigante mi avesse afferrato per il collo e lentamente, molto lentamente, sempre più lentamente, ma sempre più insistentemente, mi premesse a terra, facendomi perdere l’equilibrio, e poi continuando a premermi e spremermi in terra. Cominciai a sentire dei frammenti duri, freddi e taglienti penetrare il mio petto, confusamente vidi scorrere per un’infinità di tempo misurabile in frazioni di secondo varie scene slegate della mia infanzia, dall’asilo Montessori a Roma a quello di Ul’janovsk, dalle sigarette fumate alle tre stazioni di Mosca scappando da scuola, alle lezioni di francese a suon di Salvatore Adamo, dalla bisca delle medie inferiori vicino piazza Re di Roma ai cortei contro i doppi turni al liceo. Confusamente, ebbi l’assoluta consapevolezza che stavo perdendo i sensi e che probabilmente non mi sarei mai più risvegliato. Nel frattempo, sentii ormai sicuro un altro boato e svariati ed infiniti spari.
In realtà, mi ripresi quasi subito, perché stavo soffocando. Sentivo il gelo delle mattonelle, la mia bocca ed il naso erano immersi in un liquido dal sapore di ferro, ma non riuscivo a sollevarmi perché sulla testa sentivo la pancia di Luciana, che per sua fortuna avevo fatto in tempo a tirare giù in terra con me, per istinto. Urlava “aiuto, li mortacci vostri...”, gli spari continuavano. Mi stava sommergendo di sangue, sentivo il suo dolore fisico e capii che era proprio il sangue in terra che mi impediva di respirare, come in apnea.
Finalmente, tirai via la mia testa, e fu anche peggio: nel buio pesto, tutto era fumo da non respirare. E ancora sparavano. Stavamo facendo la fine dei topi.
Carponi, tra urla assordanti di disperazione e fumo acido che bruciava in gola come lacrimogeni, guadagnavamo le scale, cercando prima di sospingere quei compagni che non riuscivano nemmeno a muoversi, probabilmente svenuti, sempre al buio, come ciechi. Dal bar di fronte e dal cinema Apollo, usciva gente incredula e ci guardava impietrita, non riuscivano nemmeno ad avvicinarsi, qualcuno vomitava alla vista della carne lacerata.
Io non sono né particolarmente coraggioso (direi tutt’altro), né smodatamente altruista. Eppure, mi pareva di essere illeso. Rendo omaggio ai servizi di Pronto Soccorso: le prime ambulanze arrivarono dopo una ventina di minuti. Ma eravamo troppi: dovette intervenire anche un’ambulanza dei pompieri. E non sapevano nemmeno dove portarci: nonostante tutto, non si era abituati a questo tipo di ferimenti, non era né lo scoppio di una bombola del gas, né un crollo strutturale. La strage di Bologna, ad opera degli stessi bravi ragazzi della Roma bene, sarebbe avvenuta solo un anno dopo.
Io aiutavo a caricare i feriti, sentendomi perfettamente in forma, a parte l’umido nella scarpa sinistra. Fu solo quando stava per partire l’ambulanza dei pompieri che Roberto, il segretario del circolo FGCI, mi intimò di non fare il coglione e di andare anch’io; al mio rifiuto stupito, mi fece notare che ero ferito. Pensavo che il sangue in testa fosse di Luciana, ed era vero, e pensavo fosse di qualcun altro il sangue sulla camicia, sui pantaloni e nella scarpa. Mi erano entrate in corpo sette schegge, solo allora ricordai la sensazione di quei frammenti che penetravano nel corpo quando ero in terra. Due in petto, un frammento di filamento nello stomaco, un’altra nella mano, una nella gamba destra e due in quella sinistra, ed una di queste aveva leso l’osso, per questo il sangue aveva riempito la mia Clark rigorosamente falsa imitazione. Una scheggia si era fusa sul bacino, un’altra, la più grossa, si era spiaccicata sull’accendino Zippo che mi aveva regalato il marito di mia madre a Mosca, padre di mia sorella, che avevo nel taschino della camicia, esattamente sul cuore. Poi dicono che fumare fa male. Tutto questo lo scoprii molti giorni dopo.
Entrai nell’ambulanza, eravamo stipati in cinque. Ci portarono all’ospedale San Giovanni, lo stesso dove molti anni prima mio nonno aveva portato a piedi sulle spalle mio zio Ezio, che stava soffocando per un osso in gola, e che uscì proprio grazie a quegli scossoni, lo stesso dove molti anni dopo andò mio padre, sempre a piedi, quando ebbe un infarto.
Quando aprirono lo sportello dell’ambulanza, ne uscì un rivolo di sangue mischiato di cinque persone. Sorreggendoci l’un con l’altro, ci mettemmo in fila, poiché le strutture del Pronto Soccorso non erano sufficienti per tutti, nonostante che parte di noi fosse stata smistata al Policlinico Gemelli. Le altre persone, casualmente presenti per altri malanni, continuavano a chiederci della bombola del gas. Quasi non ci credeva nessuno.
Per prima cosa, trovai un telefono pubblico e chiamai mio padre: pochi istanti dopo, fu la prima notizia del telegiornale delle 20. Cercai di essere lucido e preciso. Dissi, più o meno, di ascoltarmi attentamente e di non perdere tempo in inutili commenti, “perché tanto non ci poteva fare nulla e tutto quel che avrebbe potuto accadere era già successo”, che io comunque stavo bene, che non sapevo fra quanto sarei tornato e che poi gli avrei spiegato.
Ero tra i meno gravi: Angelo, per esempio, aveva una pallottola nel gomito, sembrava dovessero amputargli il braccio, che poi per fortuna gli salvarono. La pallottola era nel gomito perché in quel momento stava sbadigliando e si stava stiracchiando, altrimenti sarebbe finita in testa. Continuavo in automatico a “dirigere il traffico”, regolando l’ingresso dei feriti dal dottore. Anche lì, come in ambulanza, entrai per ultimo. Forse per il solito pressappochismo italiano, forse perché ormai i più gravi li avevano curati, mi spremettero i fori dove erano penetrate le schegge in petto e dissero che queste ultime erano uscite da se. In effetti, qualcosa era uscito, ma, come risultò dopo qualche giorno, quando il dolore continuava ad aumentare, si trattava di ciccettini di carne. Le schegge, minuscole, sono tuttora al loro posto, a distanza di oltre quarant’anni.
Uscito nuovamente nella sala d’aspetto, ebbi l’unico momento di crollo psicologico: mi sedetti e singhiozzai senza lacrime. Dieci minuti dopo tornai in sezione, dove si stava già formando il corteo, un fiume di gente, nonostante l’improvvisazione e l’ora tarda, in prima fila noi feriti sporchi di sangue. Tra le prime “autorità” accorse, Maurizio Ferrara, capo della Resistenza romana, il sindaco Giulio Carlo Argan e Pietro Ingrao. Attraverso il ponte di S.Bibiana, ci dirigemmo verso il quartiere popolare di San Lorenzo, teatro del bombardamento del 19 luglio 1943.
A notte inoltrata, tornai a casa. Mio padre e sua moglie mi aspettavano, ovviamente. Una volta terminato il mio racconto, mio padre pensò bene di sdrammatizzare facendomi notare che la camicia, irrimediabilmente lacerata e lacera di sangue, era sua. L’aveva acquistata al mercatino di via Sannio, sotto casa, per ben 200 lire. Era una camicia con delle bruttissime pagode cinesi, magari appartenuta a qualche militare statunitense in Vietnam.
Il giorno dopo, tornammo in sezione per una diffusione straordinaria dell’Unità a S.Giovanni. Io, come mio solito, ci arrivai troppo presto, alle otto del mattino di domenica, col fatto che ero tra quelli che avevano le chiavi; non c’era ancora nessuno, solo Gloria, una compagna diciannovenne che il giorno prima non c’era. Per me, diciassettenne, era una “vecchia”, ed infatti in quel lungo abbraccio tra le lacrime, in un silenzio tombale, percepii quasi qualcosa di materno. Il pavimento era ancora completamente intriso del sangue di 27 feriti. Una delle bombe SRCM era evidentemente difettosa: anziché disfarsi tutta in schegge, se n’era staccato un pezzo intero e si era conficcato nel muro. Per caso, lungo la sua traiettoria non era capitata nessuna delle 70 persone presenti, esattamente come per una serie fortuita di coincidenze non morì nessuno, cosa che costò un rimprovero da parte di Giusva Fioravanti, capo della squadraccia fascista, ai suoi. Quel Giusva che, da bambino, tutti ricordano nello sceneggiato della “Famiglia Benvenuti”.
La seconda granata era caduta esattamente dove ero seduto prima di alzarmi pochi istanti prima per parlare dei portaceneri con Luciana. La mia sedia non fu mai più ritrovata, al suo posto nelle mattonelle campeggiava una buca di circa cinque centimetri di profondità.
Di lì a qualche giorno, sentendo che il dolore non diminuiva, andai da mio zio Enzo, chirurgo alla USL del Prenestino. Mi estrasse le due schegge nella gamba sinistra e quella nella gamba destra, ma disse che quelle in petto, nella mano ed il filamento nello stomaco ormai era più pericoloso estrarle che lasciarle al loro posto, e che entro poche settimane si sarebbero formate attorno delle capsule di tessuto cutaneo. E’ così che ci convivo da allora, per la gioia dei metal detector aeroportuali e bancari quando sono tarati male.
Penso che molti, tra coloro che mi leggono, hanno presente quel tipico fenomeno di autocommiserazione che colpisce gli adolescenti. Ci si immagina brutti, storti, stupidi, fatti male, ci si convince della propria inutilità e di voler morire “perché tanto non se ne accorgerebbe nessuno”. Tutte queste fesserie, che generalmente spariscono man mano con l’età, in me si sono volatilizzate nel giro di una mezzora la sera del 16 giugno 1979. Tuttora, ogni qualvolta mi scontro con qualche avversità della vita (ed è successo varie volte, non per cose futili), non mi deprimo mai: m’incazzo, perché “la depressione è un lusso da ricchi, ed io sono nato povero”.
A fine mese, partii per Mosca, dove ogni anno andavo per le vacanze estive da mia madre. Bisogna ricordare che all’epoca non esisteva la teleselezione internazionale, né tantomeno i telefoni cellulari. Con mio padre avevamo stabilito di non dirle nulla, meglio che glielo avessi detto di persona. Così fu, nel tassì che ci portava in città dall’aeroporto. Il tassista aveva timore persino di voltarsi, tanto suonava incredibile il mio racconto per un sovietico degli anni ‘70. Mia madre ascoltò tutta la storia in silenzio, senza mai guardarmi, la ricordo in quell’occasione rigorosamente di profilo. Ella non aveva mai approvato il mio coinvolgimento politico, per cui, al termine, il suo unico commento fu: ecco cosa succede, a far politica. Naturalmente, non ho mai smesso.
Il marito di mia madre era uno psichiatra. Venuto a conoscenza dell’accaduto, chiese per me un appuntamento all’ospedale militare degli invalidi di guerra. Sempre contestualizzando, bisogna rendersi conto che i ventenni della seconda guerra mondiale erano all’epoca poco più che cinquantenni. Gli invalidi erano tantissimi, feriti e mutilati. Ne ricordo molti per le strade di Mosca, deambulare senza gambe, quasi tagliati a metà, su tavolette di compensato con cuscinetti a sfera e delle spazzole alle mani fissate con delle cinghie di pelle. Ecco perché la dottoressa che mi fece le lastre per stabilire una volta per tutte la quantità delle schegge rimaste e la loro dislocazione, era espertissima. Tuttavia, non capiva come mai questo minorenne dal cognome italiano parlasse come un russo, e soprattutto non capiva dove mai egli avesse potuto infognarsi in un ginepraio simile. Al termine della visita mi fece accomodare nel suo studio e mi intimò: “adesso spiegami”. Le raccontai questa storia, mostrandole le schegge estratte avvolte in un brandello di garza col sangue rappreso. L’espressione dei suoi occhi era simile a quella del tassista, come se fossi giunto lì dal passato remoto attraverso una macchina del tempo. Confermò quanto detto da mio zio: ormai, era meglio lasciare tutto com’era. Mi mostrò le lastre di un loro paziente ambulatoriale, che veniva ogni sei mesi per delle visite di controllo. Durante un contrattacco tedesco, questi fu ferito da una pallottola nella schiena. In trent’anni, senza ledere alcun organo vitale, la pallottola aveva attraversato il suo stomaco, attestandosi in prossimità dell’ombelico. Sulle lastre, quel canale scavato e la pallottola stessa parevano disegnati da un fumettista.
Da allora, non sopporto né botti né siringhe, per le quali svengo persino se si tratta di un’antitetanica. Indipendentemente dai miei principi morali, come tossicodipendente non farei carriera.
L’ultimo strascico di questa brutta avventura risale al 1985. Avevo 23 anni, ero stato richiamato alle armi, svolgevo il servizio militare ad Ascoli Piceno in una caserma notoriamente “di destra”, piena di raccomandati locali. A loro dispiacque molto dovermi concedere una licenza quando ricevetti l’ingiunzione di presentarmi come parte lesa al processo contro i NAR presso il carcere di Rebibbia a Roma, ma dovettero ubbidire.
Rividi quasi tutti i miei compagni di allora, ed anche molti altri. Soprattutto, mi rimase impresso un ragazzo zoppo, ferito assieme ad Ivo Zini, ammazzato mentre, davanti alla bacheca dell’Unità della sezione PCI Alberone, in via Appia Nuova, leggevano a quale cinema andare quella sera del 28 settembre 1978.
Anche lì, era impressionante la sensazione di “catena di montaggio”, sia nella maniacale perquisizione all’ingresso, sia nello sfilare a fianco delle gabbie dopo la deposizione in aula di fronte al giudice. Erano tutti in una gabbia, tranne Alessandro Alibrandi (nel frattempo morto durante un tentativo di rapina in una gioielleria), Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, che erano in una gabbia a parte a farsi fotografare dai paparazzi in effusioni più che esplicite, e Cristiano Fioravanti, credo uno dei primi pentiti, isolato in una gabbia tutta sua.
Mentre passavo, lo confesso, provavo un sentimento credo del tutto umano di rivalsa. Quando passai davanti a quella di Cristiano Fioravanti, ci fu qualcosa di magnetico, o almeno io lo ricordo in questo modo. Egli è, se non sbaglio, mio coetaneo. Era come se per qualche minuto durato pochi secondi ci fossimo parlati con gli occhi. In brevis, quel che percepii fu uno sguardo di angoscia e di stanchezza. Sembrava dire: “potevi morire, ma fatto sta che sei vivo. Io, invece, da qui non uscirò mai più”.
Valeva la pena? No, certo. A lui non sarà mai possibile vivere tutte le gioie, le angosce, gli innamoramenti, le sofferenze, le sbronze, le serate con la chitarra che ho poi vissuto io. Lo so: anche i tanti ragazzi che hanno ammazzato avrebbero voluto vivere, fare figli, accudire i nipoti, ed invece quel filo di continuità venne reciso proprio dalle aberranti azioni di questi fascisti in erba. Ma quando uscii da Rebibbia, avevo una sensazione amara. Non sono per il perdono, non sono cristiano, sono ateo convinto. Non ho provato compassione, ma sicuramente tristezza. Una tristezza con cui continuo a convivere.
Buon 25 aprile a tutti.
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