Mark Bernardini

Mark Bernardini

domenica 9 luglio 2023

033 Italiani di Russia

Trentatreesimo notiziario settimanale di lunedì 10 luglio 2023 degli italiani di Russia. Buon ascolto e buona visione.

Attualità

A proposito dei media russi che per lo più sono democraticamente oscurati in Italia, ho un aggiornamento. Spesso dall’Italia mi si chiede di tradurre talune notizie, ma io molte volte non ho tempo, e rimando al traduttore automatico di Google. La traduzione grida vendetta, ma è sufficiente per comprendere almeno il senso.

Ebbene, dall’inizio dell’operazione militare speciale, non potete tradurre il sito del ministero degli esteri, Google risponde “Can’t translate this page”. Poi vai sul traduttore di Yandex, la traduzione in italiano fa ancora più schifo, però funziona, e questa è la prova provata.

Tempo fa notavo che la buonanima di mio padre, a Roma, sul digitale terrestre guardava tranquillamente le emittenti televisive Pervyj, RTR Planeta e Russia 24. Ora c’è l’effetto neve. Naturalmente, questo non succede con la CNN, la BBC o France 24. Viceversa, in Russia vediamo, senza ulteriori artifizi, tutti i canali italiani in chiaro: RAI 1, 2 e 3, RAI News 24, eccetera. Quello che non vediamo è quanto viene messo a pagamento dalle stesse emittenti, tipo RAI 4 e 5, tutti i canali Mediaset e La 7. Per quanto riguarda quest’ultima, essa trasmette in chiaro negli Stati Uniti e per soldi in Russia. Emblematico.

L’ultima notizia in ordine di tempo riguarda il sito dell’emittente televisiva Car’grad, che è rientrata nell’ulteriore elenco di cinque media oscurati dall’undicesimo pacchetto delle sanzioni dell’Unione Europea. Stessa storia: “Can’t translate this page”.

Sì, lo so, già vi sento: usa il VPN, che, per i meno avvezzi, non è un misterioso neologismo, bensì un sistema che consente di mentire, tipo che vi connettete da Mosca, piuttosto che da Belgrado o dalla mitologica Timbuctu anziché da Roma. Io però non ne ho bisogno, siete voi ad averne necessità.

La vicenda del piano di pace per l’Ucraina del Vaticano sta assumendo i contorni di una telenovela. Non penso di essere l’unico ad aver letto in queste settimane le notizie che si susseguivano in merito. Però mi pare di essere tra i pochi ad aver notato da subito che, a differenza, per esempio, del piano cinese e di quant’altri, nessuno ha potuto visionarlo. E allora che piano sarà?, mi ero chiesto e vi avevo domandato.

L’emissario del Papa per una soluzione in Ucraina, il cardinal Matteo Zuppi, che ha visitato Mosca la settimana scorsa, ha dichiarato al quotidiano il Resto del Carlino che il Vaticano non ha alcun piano proprio per avviare negoziati per porre fine al conflitto.

“Sotto la guida di Papa Francesco e con lui nei prossimi giorni rifletteremo su quanto abbiamo ascoltato. Per questo non abbiamo ancora un progetto che possa facilitare l’avvio di trattative. Siamo molto interessati all’iniziativa umanitaria e alla protezione della vita degli innocenti”, – lo cita il quotidiano di Bologna.

“Non c’è un piano di pace e di mediazione, c’è tanta voglia di far sì che la violenza cessi e si possano salvare vite umane, a partire dalla tutela dei più piccoli”, ha detto l’arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana.

Durante una visita di tre giorni a Mosca, il Cardinale Zuppi ha incontrato il Patriarca Kirill di Mosca e di tutte le Russie, Marija L’vova-Belova, Commissario per i diritti dell’infanzia sotto il Presidente della Federazione Russa, Jurij Ušakov, assistente del Presidente della Russia, e il Clero cattolico della Russia.

Come ha riferito venerdì il servizio stampa della Santa Sede, Zuppi ha discusso di “iniziative umanitarie che potrebbero contribuire a una soluzione pacifica” del conflitto in Ucraina in un incontro con il patriarca Kirill. I risultati della visita, come è noto, saranno portati all’attenzione di Papa Francesco “alla luce di ulteriori passi da compiere sia a livello umanitario che nella ricerca di vie per la pace”.

Il capo stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ha dichiarato il 20 maggio ai giornalisti che Papa Francesco ha incaricato il cardinal Zuppi di svolgere “una missione che contribuirà ad allentare le tensioni nel conflitto in Ucraina, nella speranza… che questo possa aprire la strada alla pace”.

Zuppi si è recato a Kiev il 5 e 6 giugno come inviato papale per una regolamentazione in Ucraina. Il Vaticano ha definito il viaggio “breve ma ricco di eventi”. Il messaggio della Santa Sede ha rilevato che i risultati dei negoziati tenutisi a Kiev “saranno portati all’attenzione del Santo Padre e saranno senz’altro utili per valutare i passi che si devono continuare a compiere sia a livello umanitario che nella ricerca di vie per una pace giusta e duratura”.

Non so se avete notato che sia stata retoricamente usata la stessa identica frase per entrambi gli incontri, ma non è questo il punto. Il Vaticano voleva ascoltare entrambe le campane? Lodevole. Però non avrebbe dovuto nutrirci per settimane paventando un piano che ora, per sua stessa ammissione, non esiste e non è mai esistito.

La settimana scorsa ho pubblicato un servizio su Alessandro Bertolini, il volontario del Donbass arrestato a Malpensa. Sono piovute centinaia di commenti, tra questi decine a dirmi che sia un simpatizzante di Forza Nuova, tracciando un pericoloso sillogismo, per cui Putin e tutta la Russia siano fascisti.

L’ho detto nel servizio e lo ribadisco: nell’ambito del panorama politico italiano, mi interessa poco, e anzi non m’interessa affatto, quali siano le convinzioni di Bertolini. Quel che conta, è che abbia combattuto dalla parte delle Repubbliche Popolari del Donbass, non certo da quella degli ucronazisti. E qui casca l’asino: a febbraio, in Italia si è fatto un gran parlare di tale Giulia Schiff, ex pilota dell’aeronautica militare italiana, tra le file ucronaziste. E’ rientrata in Italia più volte e poi tornata in Ucraina. In Italia è stata osannata come eroina.

E qui l’altra accusa che mi è stata mossa: l’occidente collettivo è un covo di comunisti, ebrei e massoni. Tralasciando le fesserie etniche e religiose, ricordo sommessamente che la Von Der Leyen è democristiana. Meloni, proveniente dalla sezione fascista della Garbatella, è di centrodestra per non dire di peggio. Macron, centrista. Michel, liberale. Metsola, democristiana. Sunak, conservatore. Rütte, democristiano. Una formidabile congrega di zecche comuniste, non c’è che dire, una pericolosa cellula dormiente.

Ma ecco il mio servizio di appena tre minuti.

La stampa italiana non brilla per originalità, è tutto estremamente prevedibile. Mi limito alla odiosa Repubblica, tutti gli altri scrivono lo stesso copione: “Il mercenario detenuto può consentire agli inquirenti di chiarire il meccanismo di reclutamento e pagamento dei combattenti stranieri utilizzato da molti anni da Mosca”.

Mercenario. Per 150 euro. Ma, ovviamente, nessuno scrive di questo dettaglio. Nessuno si unisce alla milizia popolare della Repubblica Popolare di Doneck per somme del genere, solo per convinzione. E il cosiddetto “reclutamento”, ovviamente, non viene effettuato da Mosca.

Affrontiamo, tuttavia, un’altra domanda: e ora? Fino a settembre starà sicuramente solo in gattabuia, senza processo né inchiesta: le vacanze di agosto sono alle porte, e questa è una cosa santa e universale in Italia. Al legale che ora si occupa di lui non sono ancora state presentate accuse specifiche.

Certo, la domanda rimane: perché è tornato? Dopotutto, i giornali italiani hanno scritto delle accuse contro di lui già ad aprile. E nel Donbass ha una moglie, un bambino di tre anni e un secondo è in arrivo.

Personalmente, vedo tre possibili opzioni. Forse un parente (ad esempio sua madre) è gravemente malato. Forse la mamma (che dio la preservi in salute) sta bene e gli è stata fornita una disinformazione. Forse, finalmente, ha deciso di fare un’azione dimostrativa. Respingo quest’ultima opzione: le mie fonti informate di alto rango (credetemi, le ho e non le rivelo) parlano di Bertolini come di una persona molto equilibrata, ponderata.

Personalmente, tutta questa storia mi ricorda molto le “Brigate garibaldine” degli italiani durante la guerra civile spagnola nel 1936-1939. Ora come allora, i fascisti assoldati vengono presentati come eroi che combattono contro il male del mondo, contro i comunisti, e i comunisti come terroristi e traditori della loro patria.

Non so se Bertolini sia comunista, e non credo abbia importanza. I battaglioni nazisti ucraini sono pieni di teppisti fascisti provenienti da tutta l’Europa occidentale, cioè da tutti gli ex alleati di Hitler, e fanno liberamente avanti e indietro con l’Italia.

Tutti avrete letto del presidente ceceno Kadyrov che avrebbe dato della cagna, minacciandola di morte, alla giornalista aggredita in aeroporto nella capitale Groznyj. A dirlo è tale Rosalba Castelletti, di Repubblica, dunque sarà vero.

La memoria corre a dieci anni fa. Tutta la stampa occidentale, con quella italiana a pecoroni, strombazzava che il leader nordcoreano Kim Jong-un avrebbe fatto giustiziare Kim Hyok-chol, incaricato del regime a trattare con gli Usa e promotore insieme con il braccio destro del presidente, Kim Yong-chol, dei vertici con Donald Trump a Singapore e ad Hanoi. Kim Yong-chol e la sorella del leader nordcoreano, Kim Yo Jong, sarebbero finiti in un gulag, ma a essere giustiziati erano stati anche 4 funzionari del ministero degli Esteri, tutti colpevoli di aver “tradito la rivoluzione” con l’insuccesso diplomatico. Passato per le armi anche l’interprete dell’incontro di Hanoi, il quale non avrebbe tradotto in modo appropriato o quantomeno convincente la proposta formulata da Kim all’ultimo minuto, prima che il presidente Usa lasciasse il negoziato.

Successivamente, però, in rete sono state diffuse le immagini della partecipazione di Kim Hyok-chol e di Kim Yong-chol ad una manifestazione avvenuta giorni dopo alla quale erano presenti il presidente nordcoreano Kim Jong-un e la sorella, tutte persone che vanno ad arricchire la lunga lista di funzionari del regime data erroneamente per vittime delle purghe.

I casi più eclatanti risalgono al 2013: la fidanzata del leader Kim per la stampa internazionale era stata giustiziata in quanto aveva girato un film porno. Poco dopo apparve in un video. Sempre in quell’anno lo zio Jang Song Thaek, considerato mentore e tutore del presidente, per la stampa di Singapore era stato fatto sbranare da 120 cani in una gabbia davanti ad un Kim divertito, ed anche la famiglia, tra cui un ambasciatore, era stata sterminata: in realtà erano tutti stati mandati al confino in un villaggio sperduto. Nel 2015 la stampa aveva diffuso che il generale Hyon Yong-chol, ministro della Difesa, si era addormentato durante una parata, e su ordine di Kim era stato ucciso a cannonate: è apparso poco dopo in diversi video, al suo posto. Giustiziato anche l’ex ministro dell’Agricoltura Hwang Min per il fallimento delle riforme agrarie: è vivo e vegeto. Stesso discorso vale per Kim Yong-jin, vicepremier, e per numerosi gerarchi.

A tutt’oggi, a distanza di un decennio, nessun sedicente giornalista italiano si è sentito in dovere di ammettere che “sì, effettivamente, quella volta ho detto una cazzata”. E così, nel subconscio dell’opinione pubblica, resta un’idea di una Repubblica Popolare Democratica di Corea governata da un branco di pazzi sanguinari in quanto comunisti, o viceversa. Passa un anno e nessuno ricorda più queste fregnacce, figuriamoci dopo dieci anni.

Un altro mio servizio della settimana appena trascorsa riguardava le dichiarazioni di Aleksej Miller, della Gazprom. In pratica, l’Ucraina impedisce il transito in territorio ucraino del gas russo destinato all’Europa occidentale, ma pretende che la Russia sia multata per non assolvere ai propri obblighi contrattuali. Bel colpo. E’ meno di due minuti, rivedetevelo.

La Gazprom, azienda di Stato del gas e petrolio, ha commentato i tentativi ucraini di organizzare un processo giudiziario in merito al transito del gas russo verso l’Europa. Stiamo parlando delle prescrizioni di pagare le forniture, per le quali la Naftogaz ucraina emette delle non meglio identificate fatture, nonostante che rifiutino le forniture di gas russo alla centrale “Sochranovka”.

In questa situazione, l’Ucraina trasgredisce essa stessa agli obblighi contrattuali, come ha sottolineato stamattina l’amministratore delegato della Gazprom Aleksej Miller: Naftogaz agisce in modo irresponsabile, ma, tenuto conto delle tendenze russofobe in Europa e le sanzioni contro la Russia, difficilmente si può confidare in un’analisi equa ed imparziale della controversia.

“Gazprom ritiene che queste inchieste amministrative siano illegittime, e partecipare all’eventuale processo non abbia alcun senso. I tentativi pretestuosi di Naftogaz di dare ulteriore seguito alle indagini stanno a testimoniare il loro approccio deleterio all’organizzazione del transito del gas russo verso l’Europa e, complessivamente un atteggiamento ostile nei confronti della Federazione Russa.

Naftogaz ha già presentato una querela plurimiliardaria contro la Russia negli Stati Uniti. Qualora proseguissero tali azioni disoneste, non è da escludere che ciò porti all’introduzione di sanzioni russe, dopo di che ogni rapporto delle aziende russe con la Naftogaz diventerà semplicemente impossibile”.

Ricordate, nell’ottobre scorso, il coro dei pennivendoli italiani a dire che il ponte di Crimea era stato fatto saltare dai russi? La prova provata era che a dirlo era l’Ucraina. “273 giorni da quando è stato effettuato il primo attacco sul ponte di Crimea per interrompere la logistica russa”, scrive ora sul suo canale Telegram il vice ministro della Difesa ucraino Anna Maljar, cioè mica una cittadina qualunque, riassumendo i risultati di 500 giorni dell’operazione militare speciale russa per il regime di Kiev.

Attendo fiducioso che, anche in questo frangente, i giornalisti italiani dichiarino: “sì, in effetti, quella volta ho detto una cazzata”. Fiducioso? Mi correggo: ho la certezza che non lo faranno.

Cinema

Oggi voglio parlarvi di un film del 1988, dunque degli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Si chiama “Città Zero”. Il regista di questo lungometraggio fantasmagorico è uno piuttosto famoso anche all’estero, Karen Šachnazarov. In uno scenario allegorico crittografato, avviene il crollo dell’URSS, e vi ricordo che il film è del 1988. Non cercate la trama in Wikipedia italiana, vi troverete poche parole scarne, ascoltate me. Poi capirete perché ve lo racconto. I due protagonisti che mi interessano sono Vladimir Men’šov, altro regista (giusto come esempio, “Mosca non crede alle lacrime”) che qui però fa l’attore, e il prematuramente scomparso Leonid Filatov. Poi un sacco di altri attori famosi, che però tanto non conoscete.

Aleksej Varakin, ingegnere in uno stabilimento di costruzione di macchine di Mosca, arriva in una città di provincia in viaggio d’affari per concordare i dettagli tecnici di un cambiamento nella progettazione dei condizionatori d’aria che la fabbrica meccanica locale fornisce alla sua azienda da quindici anni.

Le assurdità iniziano già all’ingresso della fabbrica, dove non c’è il pass, che invece lui ha richiesto appena mezz’ora fa. La segretaria del direttore della fabbrica lavora completamente nuda, ma nessuno ci fa caso. Il direttore non sa che l’ingegnere capo dell’impianto è morto in un incidente otto mesi fa.

Al ristorante Varakin chiede un minestrone, una bistecca e una bottiglia di acqua minerale. Il cameriere offre con insistenza un dolce in regalo dallo chef: una torta a forma di testa di Varakin stesso. Nonostante l’avvertimento che il cuoco potrebbe offendersi e suicidarsi, Varakin rifiuta indignato il regalo e sta per andarsene, ma rimbomba uno sparo e il cuoco, con una rivoltella in mano e una pallottola nel cuore, cade morto al pavimento.

Varakin cerca di uscire dalla strana città il prima possibile. Tuttavia, alla biglietteria della stazione, gli viene detto che non ci sono biglietti. Il tassista, invece della stazione ferroviaria di Perebrodino, porta Varakin a Perebrodovo, una regione selvaggia in cui per un qualche motivo risulta esservi il museo locale delle tradizioni locali. Il curatore del museo si offre di aspettare l’auto, ma nel frattempo di visitare l’esposizione. E mostra una collezione di reperti stravaganti trovati nelle vicinanze dal mercante locale Butov, appassionato amante di archeologia: il sarcofago di Dardano, figlio di Giove, i resti della coorte della XIV legione antica romana, il letto di Attila, sul quale questi abusò della regina visigota davanti alla sua orda, la pistola di Pëtr Urusov, da cui, secondo il custode, aveva sparato al falso Dmitrij II, la cui testa è esposta proprio lì. Seguono le figure di cera: i primi artisti di rock and roll in questa città; il principe Vladimir; Azef, socialista-rivoluzionario ; il monaco Julian, ambasciatore e ufficiale dell’intelligence del re ungherese Bela IV in Russia; l’anarchico Machno con l’aiutante Gavrjuša ; Zinovij Peškov quando era ambasciatore francese in Cina; il poeta locale Vasilij Čugunov; il capo del Gulag, il compagno Berman; l’architetto accademico Ivan Fomin; il giovane Stalin, fuggito dall’esilio, che brinda a un “ futuro radioso”. Il tour si conclude con l’esposizione dello scultore Troickij, che da un lato raffigura il popolo sovietico multietnico, inclusi gli stachanovisti della produzione, gli atleti e i gagà e fricchettoni, e dall’altro musicisti rock, gente con la divisa del club Spartak, ragazze in minigonna, membri dell’organizzazione neonazista ultranazionalista “Pamjat’”, membri delle brigate internazionaliste, hippies e rocker.

Varakin si ferma per la notte dall’elettricista locale, il cui giovane figlio Miša dice all’ospite che non potrà mai più lasciare questa città, cita accuratamente il suo cognome, nome, patronimico, anno di nascita (1945, l’attore è nato nel 1946) e anno di morte (2015, in realtà 2003), e anche i nomi delle sue quattro figlie, per conto delle quali gli verrà eretto un monumento funebre nel locale cimitero. Appare Anna, un’automobilista locale, che sta cercando di portare Varakin alla stazione di Perebrodino con una Žiguli rossa, dove si fermano due treni per Mosca, ma il suo passeggero viene intercettato da una Volga nero con agenti di polizia.

L’investigatore mostra a Varakin una fotografia trovata nelle cose del cuoco defunto con una didascalia, che indica che il cuoco Nikolaev è il padre di Varakin e che il vero nome di Aleksej Varakin è Machmud. A Varakin è stato preso un impegno scritto a non lasciare il luogo, ma l’investigatore gli lascia la possibilità di presentare ricorso contro questa decisione al procuratore cittadino. Varakin continua a considerare quanto accaduto come un malinteso. Il Procuratore locale – e qui ci avviciniamo alla ragione per cui vi faccio questa narrazione così estesa – invita Varakin e gli confessa il suo desiderio segreto di commettere un crimine disperato e immotivato, “qualcosa di folle, che nessuno si aspetta affatto da te”. Fornisce anche la sua versione dell’accaduto, secondo la quale la tragedia nel ristorante non è un suicidio, ma un omicidio pianificato. Il jazz che improvvisamente iniziò a suonare quella sera aveva lo scopo di distogliere l’attenzione di Varakin dallo sparo. Il procuratore parla della gravità del caso e espone la filosofia del rafforzamento dello Stato russo “dai tempi dell’invasione tataro-mongola”. Eccoci, ci siamo. Lo Stato toglie l’individualità e in cambio dà partecipazione alla grandezza, alla forza e all’immortalità. Tuttavia, secondo il procuratore, il popolo sovietico moderno è tentato dalle “idee occidentali”, che minacciano lo Stato russo, ma tuttavia “tutte le nostre rivoluzioni alla fine hanno portato non alla distruzione, ma al rafforzamento e al consolidamento dello Stato, e lo saranno sempre”. Il pubblico ministero è convinto che il caso di Nikolaev, a prima vista, del tutto insignificante, abbia un significato estremamente profondo, riguardi gli interessi dello Stato, quindi Varakin non dovrebbe assolutamente andarsene.

Ciò che Varakin percepisce come nonsenso e completa assurdità, per gli abitanti della città, a quanto pare, è un luogo comune. All’inizio Varakin è stupito da ciò che sta accadendo e cerca in qualche modo di combattere la catena di eventi irrazionali che gli accadono, ma a poco a poco fa i conti con le circostanze, si adatta ad esse e inizia anche a seguire il corso irrazionale delle cose come scontate. Non si oppone più al fatto di essere Machmud, il figlio del defunto cuoco Nikolaev.

Anna implora di andare con lei alla dacia del poeta Čugunov. Questi dice a Varakin che il cuoco Nikolaev era quel “primo artista di rock and roll” in città, che si esibì in una serata giovanile al Palazzo della Cultura di Ždanov il 18 maggio 1957, e il suo malvagio, segretario del comitato cittadino del Komsomol, in seguito divenne pubblico ministero. Čugunov invita Varakin all’apertura del Nikolaev Rock and Roll Fan Club, dove si presenta l’intera élite di questa città. Čugunov dichiara in apertura che questa è una “vittoria della democrazia”. Iniziano le danze. Il pubblico ministero cerca di spararsi davanti a tutti i presenti, ma la pistola fa cilecca più volte.

Una ex partner di Nikolaev nella danza rock and roll arriva nella stanza di Varakin. Con l’aiuto di suo figlio, parla del suo difficile destino, di come è stata espulsa dal Komsomol e dalla facoltà di medicina, dopodiché ha cercato di avvelenarsi con l’aceto, ma ha perso solo la voce. Poi arrivano Čugunov e il pubblico ministero. Poi qualche altra persona. Il gruppo si sposta all’aperto verso la “quercia del potere di Dmitrij Donskoj”. Il pubblico ministero consiglia inaspettatamente a Varakin di correre, e lui corre, nella nebbia trova una barca senza remi e, spingendosi al largo del fiume, viene trascinato dalle rapide.

Contrariamente all’affermazione di Varakin secondo cui “i romani non sono mai stati sul territorio dell’URSS”, non è così. E’ noto che i romani raggiunsero la regione settentrionale del Mar Nero, in particolare la Crimea, ed erano anche sul territorio dell’Armenia. Negli anni ‘30 sul territorio dell’Azerbajdžan, ai piedi del monte Bojuk-daš (riserva archeologica di Qobustan a sud di Baku) è stata rinvenuta una lastra di pietra con iscrizione latina risalente al I secolo d.C. (tra l’84 e il 96). L’iscrizione recita: Imp Domitiano Cæsare avg Germanic L Julius Maximus Leg XII Ful. Traduzione: “Il tempo dell’imperatore Domiziano Cesare Augusto di Germania, Lucio Giulio Massimo, Centurione della Legione XII della Folgore”. Forse, nell’iscrizione di Qobustan, viene menzionato un distaccamento della XII Legione, che fu sterminato dai residenti locali di Apšeron. L’imperatore Domiziano inviò una legione in aiuto dei regni alleati di Iberia e Albania nel Caucaso: si ritiene che questa fosse la legione che si era spinta più a est di Roma.

Bene. Ora un breve frammento dal film, da me doppiato. Così capirete finalmente perché vi ho tediato tanto. Provate a cercare il film completo in rete, sospetto che sia stato tradotto in italiano, visto che ha ricevuto il Golden Hugo Award al Chicago International Film Festival, il Premio d’argento all’IFF di Valladolid e il Premio della European Science Fiction Association per il miglior film al San Marino IFF, tutti e tre nel 1989. Mi corre l’obbligo di ringraziare un italiano qui in Russia che me l’ha segnalato, Vittorio Torrembini, nella comunità italiana lo conoscono tutti almeno di nome.

Ho già fatto in tempo ad essere criticato pure per questa mia maglietta, tipo che sto facendo pubblicità occulta. Tranquillizzatevi: la “Ellesse”, catena di abbigliamento sportivo, non esiste più dal 1993. E nemmeno l’UISP, che era l’Unione Italiana Sport Popolare, per la sezione romana della quale nella prima metà degli anni ’80 ho fatto da addetto stampa: ora si fa chiamare “Sport per tutti”. Resta pur sempre il Vivicittà, che è una corsa podistica, alla prima edizione del 1984 della quale ho partecipato. Prima correvo per gli “amici dell’Unità”. Beh, non mi pare un granché di pubblicità: nel frattempo, mi sono invecchiato, imbolsito, ho venti chili in più. Vi sto dicendo che questa maglietta ha quarant’anni, e si vede. Infatti, ormai ci entro a malapena.

Musica

Proseguiamo con le canzoni legate in un modo o l’altro alla Russia e/o all’Italia. Ho parlato spesso dell’amore smodato, spesso non giustificato e da taluni italiani non corrisposto, dei russi per l’Italia e gli italiani.

Ho visto che in molti avete apprezzato la parentesi di musica classica, al punto che sto pensando di replicarla. Voglio però mettervi a parte di una cosa. “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, per vari anni ho cantato opera, sia in Italia che in Russia, diciamo che ho qualche competenza in materia. In molti avete riconosciuto una buona pronuncia del coro. Posso quindi dirvi che, nel canto, a differenza del parlato, talune imperfezioni tendono o a scomparire, o quantomeno ad attenuarsi.

Resta impossibile per quasi tutti gli italiani da pronunciare la vocale russa “ы”, che si traslittera in caratteri latini come “i greca”, come mi insegnavano alle medie inferiori negli anni ‘70, ma che sono sicuro che voi conosciate come “ipsilon”, alla greca appunto. Fatto sta che questo non vi rende corretta la pronuncia. E non è una vocale rara: ты (tu), мы (noi), вы (voi), giusto come esempio. Questo problema lo aveva persino mio padre, italiano purosangue, ma che parlava benissimo russo, essendosi laureato in filologia slava all’università Lomonosov di Mosca.

Viceversa, i russi hanno difficoltà col dittongo “ti” (che so io, “ti amo”), regolarmente gli esce un “zi”. Ricordo il mio insegnante di canto, un ex basso del Bol’šoj, deceduto nel 2007, che mi chiedeva di spiegarlo agli altri suoi allievi. Ci provai, ma con scarsi risultati. Allora mi venne un’idea: proposi loro di pronunciarlo come “ты”. La “ы” cantata si trasformò miracolosamente in “i”, mentre la “t” rimase tale.

Esaurita questa parte lessicale, torniamo alla musica. C’è stato un grande baritono drammatico russo (come me nel mio piccolo, piccolissimo), mio coetaneo, che è morto a 55 anni, nel 2017, di cancro al cervello. Purtroppo, dopo appena sei anni, se ne parla poco, e prevalentemente per la drammaticità della sua fine, mentre invece secondo me bisognerebbe godere di più della memoria delle sue mirabili esibizioni, anche in italiano. Beh, giudicate voi. Qui lo vedete nel 1998, nel “Largo al factotum”, più noto come la “Cavatina di Figaro”, dal “Barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini, in concerto a Montreal, in Canada, con l’omonima orchestra sinfonica, sotto la direzione del maestro Charles Dutoit (letteralmente, Carlo Del Tetto), sapete che anche loro, a differenza di quel che i nazifascisti hanno instaurato in Ucraina, sono bilingue.

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