Mark Bernardini

Mark Bernardini

lunedì 28 novembre 2016

Dizione, questa sconosciuta

Prendo spunto da quello che è stato definito in Italia l’arresto (che in realtà è un fermo, non un arresto, ma non importa) del ministro dello sviluppo economico russo Uljukàev, nella notte fra il 14 e il 15 novembre 2016.

Fin dall’alba del 15 novembre, ho provato pruriti irrefrenabili ai metatarsi nel sentire la povera annunciatrice del notiziario di Radio Popolare parlare dell’arresto. Non sapeva più che pesci prendere, ad ogni notiziario, una versione diversa: Gnugnucàgne (6:30), Uliucàie (7:00), Gliuglicàe (7:30), Ugliuchiàie (8:30)… Per evitare tale effetto esilarante, il conduttore ha preferito nominarlo “ministro”, senza inerpicarsi in pronunce improbabili. Forse è preferibile…

A tal proposito, ricordo un gustoso episodio dell’agosto 1991, un quarto di secolo fa, quando, durante il golpe in URSS, venni chiamato a RAI 3 per tre settimane di traduzione simultanea in regime 24/7.

Era il periodo in cui, a vario titolo, come conduttori o ospiti, vi hanno transitato Claudio Accardi, Bianca Berlinguer, Ennio Chiodi, Maurizio Mannoni, Rosanna Cancellieri, Corradino Mineo, Lucio Manisco, Antonio Di Bella, Bruno Ambrosio, Piero Scaramucci, Paolo Garimberti, Giuliano Giubilei, Flavio Fusi, Michele Santoro, Italo Moretti, Sandro Ruotolo, Federica Sciarelli.

Lo storico direttore di allora, Sandro Curzi, quando il TG 3 per tutti era Tele Kabul, convocò la redazione e intimò loro, indicando me col dito: siccome che ‘sto stronzo ‘o pagàmo e pure parecchio, mò me fate er cazzo der favore che prima de annà in onda je chiedete come cazzo se pronunciano li nomi e cognomi russi! Chiedo scusa per il turpiloquio, ma, come è facilmente intuibile, non è farina del mio sacco. Curzi era così: greve, ma di una professionalità totalizzante. Meschinamente, devo ammetterlo: ho goduto…

Ne feci tesoro molti anni dopo, nel 2011-2014. In quel periodo, ho lavorato per “La Voce della Russia” (la storica “Radio Mosca” dove Togliatti leggeva gli appelli nel periodo della clandestinità), in qualità di speaker per i notiziari serali in lingua italiana. Capitava spesso di dover pronunciare nomi in lingue per lo più sconosciute, a noi della redazione italiana. Chi ricorda più, ad esempio, Mīdān al-Taḥrīr del Cairo, durante le rivolte egiziane del 2011? O il ministro tedesco delle finanze, Wolfgang Schäuble? Essendo la allora “Voce della Russia” (ora purtroppo soppressa) strutturata per redazioni linguistiche, prima di andare in onda mi recavo regolarmente dai colleghi, che so io, arabi, piuttosto che serbi, o tedeschi, per chiedergli, nonostante il loro stupore, la pronuncia corretta di determinati cognomi, località geografiche, ecc.

Nella vulgata italiana, restano pronunce che gridano vendetta, tipo Gòrbacioff al posto di Gorbaciòv (Gorbačëv).

Abbiamo poi Bàris Ielzin al posto di Borìs. E’ vero: in russo, la “o” senza accento tonico si pronuncia quasi come una “a”, ma se mettete l’accento tonico sulla “o”, sbagliando, almeno lasciate intonsa la “o”.

Essendo io di madrelingua russo, so perfettamente che Lenin si pronuncia “Ljénin”, ma se parlo in italiano non dirò mai “Liènin”. E comunque men che mai alla francese Lenìn (Lenine).

Finalmente, il caso eclatante del luogo della catastrofe nucleare del 26 aprile 1986, in un paesotto di 13.000 anime. In russo, quel centro abitato si è sempre chiamato Cernobýl (Černobyl’), ma fu proprio Gorbačëv, nell’annunciare la catastrofe al mondo intero, a chiamarlo Cernòbyl, come si usava nel dialetto locale, in segno di rispetto per la popolazione colpita da quella tragedia. Insomma, in questa parola di tre sillabe, che l’accento tonico cada sulla seconda o sulla terza sillaba, avrebbe comunque una sua ragion d’essere. Gli italiani sono riusciti a scegliere l’unica sbagliata in ogni caso: la prima, Cèrnobil.

Assistiamo negli ultimi anni a due fenomeni linguistici esecrabili. Il primo è che giornalisti ignoranti pensano di sopperire alla mancanza di cultura generale cambiando artatamente gli accenti tonici in parole che si riferiscono a località geografiche (ma non solo) note in Italia da secoli, talvolta da millenni, e che hanno perciò una loro pronuncia italiana indipendentemente dalla pronuncia nella lingua d’origine. Sorprendentemente, subito tutti i loro colleghi iniziano a ripetere a pappagallo la pronuncia sbagliata, e diventa grossolana, da bifolchi, mauvais ton, la pronuncia corretta. Abbiamo così Istànbul al posto di Ìstanbul, Àssad anziché Assàd, Bàku anziché Bakù, ma poi Ìrak, Bàgdad e Afgànistan (alla inglese, cioè all’americana) anziché, rispettivamente, Iràq, Baghdàd e Afghanistàn, poiché molte pronunce italiane sono state mutuate nei secoli dai cugini d’Oltralpe, i francesi. Viceversa, durante le recenti elezioni presidenziali statunitensi ho notato bordate di bon ton tipo Nord Carolàina al posto della Carolina del Nord. Colpa dell’americanizzazione imperante nel vecchio continente.

Certo, questo non riguarda più i nomi propri di persone, mentre a cavallo tra i secoli XIX e XX avevamo traduzioni dal francese in italiano di autori russi come Teodoro Dostoevskij, Leone Tolstoj, Alessandro Puškin, Antonio Čechov ed altre squisitezze del genere. Tuttavia, riguarda invece molte località geografiche, soprattutto (ma non solo) antiche colonie romane. E qui veniamo al secondo fenomeno.

Io mi reco a Mosca, non a Moskvà, sul lungofiume della Moscova, non della Moskvarekà, a Pietroburgo, non a Pétersburg, a Londra, non a London, a Parigi, non a Parì (Paris), a Spira, non a Shpàier (Speyer), a Varsavia, non a Warszawa, a Barcellona, non a Barselòna (Barcelona), e soprattutto a Zara, non a Zadar, a Fiume, non a Rijeka, a Ragusa, non a Dubrovnik, a Zagabria, non a Zagreb. Non mi risulta che i russi, gli inglesi, i francesi, i tedeschi, i polacchi, gli spagnoli, i croati accusino per questo gli italiani di sciovinismo, analogamente come agli italiani importa poco del fatto che Roma e Napoli in russo si dica, rispettivamente, Rim e Neàpol’.

Ebbene, negli ultimi anni, per ragioni nazionalistiche ed estremamente provincialoidi (si chiama “complesso d’inferiorità”), ad opera delle nutrite comunità di fuoriusciti dalle ex repubbliche sovietiche e dal Comecon, subiamo una riscrittura di tutti i loro toponimi, complice Wikipedia (che viene scritta da semplici utenti, da chiunque di noi, da chiunque di loro, giova ricordarlo) e persino, con mio grande rammarico, la Treccani. Scopro così che in italiano non si direbbe più Leopoli, bensì L’viv, non più Moldavia, ma Moldova, non Kišinëv, ma Chișinău. Non capisco (capisco benissimo) per quale ragione gli italiani accettino supinamente che gli venga insegnato l’italiano dagli europei orientali piuttosto che dagli statunitensi. Eppure, sarebbe sufficiente consultare la versione cartacea di un qualunque dizionario enciclopedico italiano serio…