Putin ha vinto con oltre tre quarti dei voti validi, questo è il primo dato. Subito, nei media occidentali e segnatamente, nel nostro caso, italiani, è iniziata una suggestiva gara a chi la spara più grossa, inseguendo l’esigenza di denigrare e delegittimare quel che nessuno contesterebbe, se non si parlasse di Russia. Proviamo ad analizzare, nel dettaglio.
La cosa più banale e, peraltro, stantia è la definizione di zar. L’ultimo monarca russo è stato fucilato il 17 luglio 1918, ben cento anni fa. Un monarca, nei Paesi moderni, svolge le funzioni di un presidente della repubblica. Tuttavia, quest’ultimo viene eletto, non importa se a suffragio universale o tramite un voto parlamentare, non importa se ogni tre, quattro, cinque, sei o sette anni: quel che conta è il principio. Un monarca, invece, designa il proprio successore a sua discrezione tra i suoi parenti, generalmente il figlio. Quanto di più antidemocratico si possa concepire. Per questo, sono inaccettabili le critiche e le allusioni mosse da Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna e Svezia: tutte monarchie, e stiamo parlando di ben sette Paesi su 28 che compongono l’Unione Europea, il 25%, un quarto.
Si parla di zar, tra l’altro, in quanto Putin è al suo quarto mandato. Rispettando la Costituzione, non si tratta di quattro mandati consecutivi (il massimo è di due). Come la mettiamo col quarto mandato consecutivo della Merkel?
Altrettanto banale e stantia suona l’accusa di regime. Nella lingua italiana, un regime è un “ordinamento politico, una forma o un sistema statuale o di governo”. E’ innegabile, tuttavia, che il termine abbia ormai assunto una valenza quasi esclusivamente negativa: “stato o governo autoritario, o anche ordinamento che, indipendentemente dalla sua forma, ha impostazioni e tendenze autoritarie, oppressive” (così la Treccani). Si parla sempre di regime di Putin, di Maduro, di Castro, di Assad, di Xi Jinping, di Kim Jong-un, di Orbán, di Erdoğan. Non si parla di regime di Renzi, Berlusconi, Macron, Sarkozy, Merkel, Grybauskaitė.
Skripal’. L’impressione è che qualcuno abbia fatto indigestione di vecchi film di James Bond, quando ad impersonarlo era lo scozzese Sean Connery. Decisamente, la Russia non aveva e non ha alcun interesse per un ex agente doppiogiochista. Ma ammettiamo pure un coinvolgimento di Putin. Qualunque persona di buon senso (e tutto si può dire di Putin, tranne che sia un dissennato) avrebbe organizzato il tutto, che so io, per il 19 marzo, all’indomani delle elezioni presidenziali, non certo due settimane prima. Tra le varie saggezze degli antichi romani, c’è quella del “cui prodest”. Fatevi una domanda, datevi una risposta.
Tra i media italiani si distingue in particolare Repubblica, per bocca della neo-corrispondente Rosalba Castelletti, degna erede di Fabrizio Dragosei (quello che, un anno e mezzo fa, su Repubblica, vaneggiava di supermercati spazzolati dai moscoviti terrorizzati alla ricerca di rifugi antiatomici, ora in forza al Corriere della Sera). Inizialmente, diceva che, per combattere l’astensionismo, “fuori e dentro i palazzi scelti come seggi sono stati allestiti stand enogastronomici, di oggettistica e aree dedicate ai bambini con animatori e giochi per richiamare il maggior numero di elettori possibile”. Vista la pessima performance come novella Cassandra (l’affluenza è stata di oltre il 67%), ora parla di “obiettivo raggiunto solo a metà”. E’ vero: l’affluenza è bassa, 67%. Però intanto bisogna che ci si metta d’accordo: se la percentuale fosse stata più simile a quella italiana, 73%, si parlerebbe certamente di “percentuali bulgare” (giusto per informazione, alle ultime elezioni parlamentari del 2017 in Bulgaria l’affluenza è stata del 54%, in Germania del 76%). E poi, i voti presi da Putin hanno raggiunto il dato più alto di sempre, sia in percentuale (oltre il 76%), sia in termini assoluti (56 milioni).
Per i mercatini, qualcuno dovrebbe spiegare alla Castelletti che bisogna studiare, prima di farsi mandare a corrispondere alcunché. I mercatini ai seggi ci sono sempre stati, fin dall’epoca sovietica, e in particolare dopo la dissoluzione dell’URSS le elezioni hanno sempre assunto il carattere di una festa di popolo. Logico, aggiungerei, se le elezioni sono una celebrazione della democrazia.
Si parla di brogli. Si votava con urne elettroniche, i seggi disponevano di due webcam, grazie alle quali chiunque nel mondo aveva la possibilità di vedere qualunque seggio. E’ vero, non esistono fortezze inespugnabili, però diciamo che sia più facile brogliare in Italia che non in Russia.
Si parla di divieto a presentarsi per il sedicente “oppositore più famoso di Putin”, Naval’nyj. In Occidente, forse, non certo in Russia, dove gli oppositori più noti sono il comunista Zjuganov, l’istrionico Žirinovskij, il liberal Javlinskij e la starlette Sobčak (figlia del defunto ex sindaco di Pietroburgo, capo di Putin, appunto). Naval’nyj non ha diritto di ricoprire cariche pubbliche per avere rubato imponenti beni ad un’azienda forestale statale. Un po’ come Berlusconi per non aver pagato le tasse, senza scomodare il signor Alfonso Capone. In Occidente scelgono periodicamente qualche figura di secondo piano come oppositore maximo, che sia Naval’nyj, Nemcov o Chodorkovskij. Consiglierei vivamente di scegliere con maggiore circospezione i propri punti di riferimento.
Parliamo ora di cose serie. Per esempio, del fatto che il Partito Comunista della Federazione Russa continua a vedere eroso il proprio consenso da più di vent’anni, tra parlamentari e presidenziali: 40% nel ’96, 24% nel ’99, 29% nel 2000, 13% nel 2003, 14% nel 2004, 12% nel 2007, 18% nel 2008, 19% nel 2011, 17% nel 2012, 13% nel 2016, 12% nel 2018. Insomma, persino i comunisti non tutti votano per il candidato comunista, e non certo a causa della lista di disturbo “Comunisti della Russia”, che si è fermata allo 0,6%. Quali sono le ipotesi? Brogli? In buona sostanza, non ce ne sono. Candidato sbagliato? Può darsi. Però l’uso smodato dei media russi per denigrarne la figura, anche con aperte menzogne, è stato fastidioso e impressionante. Naturalmente, di questo non ho letto una riga nei media italiani. Last not least, e se invece fosse il segnale che il PCFR ha perso ulteriormente voti dalle ultime parlamentari del 2016, sic et simpliciter? Internamente ai Partiti Comunisti non si usa più l’autocritica e la ricerca degli errori per correggere il tiro?
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