Sono le dieci di sera passate da un pezzo, il sole infrange le rade nubi pregne ed illumina le cupole dorate della Elochovka, progettata da un architetto mio antenato. E’ il giorno più lungo dell’anno, e la notte più corta è già passata. Sto tornando dal teatro “Ekspromt” (“estemporaneo”).
Lungo il boulevard “Čistye prudy” i ragazzi a grappoli se ne stanno accovacciati sui prati a bere birra, suonare la chitarra e leggere poesie.
Poche ore prima, alla stazione Belorusskij, i veterani cantavano e danzavano i valzer della loro giovinezza. 61 anni fa, senza preavviso, i nazifascisti sfondarono le frontiere sovietiche ed avanzarono di centinaia di chilometri nell’entroterra, seminando morte e terrore. Da questa stazione, il giorno stesso i primi drappelli raffazzonati di volontari armati alla bell’e meglio partirono per il fronte. Non ne tornò quasi nessuno. Alla stessa stazione, invece, tornarono i primi vincitori. Proprio quelli che oggi danzavano, lenti, alle note rivoluzionarie delle orchestre a fiato.
Una decina di giorni fa, mia madre mi chiamò da Mosca a Bruxelles per dirmi che forse non avrei più rivisto mia nonna. Classe 1909, le ha passate tutte, ultima in famiglia della sua generazione.
A Ul’janovsk, negli anni ’70, prendevamo una barchetta a noleggio e sparivamo per tutta la giornata tra gli isolotti della Svijaga, un affluente del Volga. Fu così che imparai a remare. Un giorno mi prese da parte e mi chiese di punto in bianco se fumassi. Al mio diniego, rispose: “non mentire, ti ho trovato le sigarette nella giacca”. Ero in trappola. “Che vuoi che ti dica? Tanto, se te lo proibisco, fumerai di nascosto, giusto? Almeno, cerca di limitarti, altrimenti crescerai meno…”. Finì che prendemmo a rifugiarci assieme sul balcone, a fumare di nascosto da mio nonno.
Nel ’91, durante il golpe, l’ottantaduenne arzilla vecchietta raccolse un volantino appallottolato che invitava a resistere contro i golpisti. Trovò una copisteria e col suo piglio rivoluzionario e la grazia di una moglie russa di ebreo bolscevico, li convinse a fotocopiarlo gratis in qualche centinaio di copie. Poi andò per strada a fare volantinaggio.
Durante tutti questi anni, ad ogni mio viaggio dovevo portarle una stecca di sigarette ed una bottiglia di Amaretto di Saronno, come nipote prediletto. Due anni fa fu l’ultima volta che la vidi come suo solito. Ora non poteva più restare sola, non vedeva quasi più, cadeva, litigava con tutti.
Nel frattempo, avevo aperto il sito contro Berlusconi, scritto il libro, avevo perso quasi tutto il mio lavoro ed ero stato sfrattato dalla polizia.
L’estate successiva non ebbi quindi la possibilità di andare a trovare la mia famiglia, e mi mantenni cantando opera. Fu solo dopo l’emigrazione a Bruxelles che a Capodanno potei permettermelo. Naturalmente, le sigarette erano ormai ridotte ad un pacchetto, e mia madre cercava di non versare troppi bicchierini. Prima di ripartire, abbracciai mia nonna e le dissi che non la salutavo perché presto sarei tornato, per lavoro. Non ho mai amato i commiati. E poi, davvero contavo di tornare, per una fiera italiana.
Invece, ho mancato alla mia promessa. Appena pochi giorni prima, mia madre riuscì a regalarle un televisore nuovo ed un videoregistratore. Fu così che mia nonna vide per la prima volta una mia videocassetta, dove cantavo.
Rimase sorpresa, più che altro per l’effetto che le fece. “E’ come se l’avessi rivisto, ancora per una volta”, disse. Una settimana dopo non ci fu più. Ho cercato di arrivare in tempo, anche non avendo difficoltà burocratiche, grazie alle mie due cittadinanze, ma è morta il 16 giugno. Un altro 16 giugno segna la mia vita: quello del ’79, quando i fascisti gettarono due granate di cui porto qualche grazioso ricordo in corpo per la gioia dei costruttori dei metaldetectors degli aeroporti.
Erano quindici anni che non volavo di notte, da quando ero stato a Taškent, ancora sovietica. Fa un effetto strano, vedere l’alba in cielo. Quand’ero bambino, e l’aeroporto Šeremet’evo era uno solo, nell’atterrare e nel vedere già dall’alto la torre Ostankino, mai avrei immaginato che un giorno sarei atterrato con gli occhi umidi.
Persino alle cinque e mezzo del mattino, occorre districarsi tra le decine di tassisti abusivi che ti perseguitano. Uguali nei loro rituali, da Mosca a Roma, da Milano a Istanbul. Molto meglio un “taxi a percorso fisso”, una specie di miniautobus a 20 rubli (circa 70 centesimi di euro), fino al capolinea della metropolitana. Alle sette del mattino, bussavo alla porta di mia madre.
Ho rivisto mia nonna al funerale. La bara scoperta, il coprirla, portarla a spalle, trasportarla al forno crematorio, baciarla per un’ultima volta, coprirla per sempre e vederla scendere in basso. E’ tutto annebbiato, fatto in automatico. Infine, il pranzo di commiato in casa sua, con un bicchierino di vodka per lei, coperto da una fetta di pane nero, che resterà così per 40 giorni.
Due giorni dopo, il valzer della vittoria tra i veterani. Era anche per lei; perché dicono che le persone non muoiono sul serio, finché vive qualcuno che le ricordi.