di Nikolaj Prožogin
Sono riuscito a trovare in Italia la tomba di Nikolaj Aleksandrovič Korsakov. Sono state ricerche lunghe, che a volte sembravano disperate. Ma io ho continuato: Korsakov era un amico di Puškin.
...Nel 1825 il poeta, caduto in disgrazia, celebrò il 19 ottobre - giorno della fondazione del liceo - nel villaggio Michajlovskoe, “in quell’angolo sperduto”. Oggi l’espressione “angolo sperduto”, riferita al villaggio Michajlovskoe, suona strana. La tenuta dei Puškin, un tempo lontana, è diventata una meta di pellegrinaggio per centinaia di migliaia di persone. E poi, i moderni mezzi di comunicazione l’hanno fatta diventare accessibile anche per il fine settimana non solo ai suoi vicini, gli abitanti di Pskov, ma anche a quelli di Leningrado ed ai moscoviti. Eppure, non è difficile immaginare quel senso di solitudine, di distacco dal mondo che il ventiseienne “eremita” provava nella sua “cella nel deserto”. Questo sentimento lo aveva predisposto ad un tono malinconico, facendo scaturire la triste melodia di questi versi:
Bevo da solo, e sulle rive della Neva
Gli amici oggi mi ricordano...
Quanti però di voi banchettano, anche lì?
Chi altro è mancato all’appello?
Chi ha tradito la bella abitudine?
Chi è stato portato via dalla luce fredda?
Chi è rimasto muto all’appello dei fratelli?
Chi non è venuto? Chi manca tra voi?
Già da qualche anno nella cerchia dei liceali mancava il loro beniamino comune, Nikolaj Korsakov, il buontempone, il poeta, il cantante e compositore che aveva adattato alla musica anche qualche verso di Puškin:
Non è venuto, il nostro cantante riccioluto,
Col fuoco negli occhi, con la chitarra dalla voce soave:
Sotto i mirti della radiosa Italia
Dorme, egli, dolcemente [...]
E pensare che, poco prima, sia gli insegnanti, sia i compagni gli avevano predetto un destino non comune. A sentire i loro concordi giudizi, in lui si combinavano felicemente un carattere allegro e socievole ed il bell’aspetto con i molteplici talenti e con un intelletto sottile e sagace. Dopo aver finito il liceo, Korsakov e tre suoi compagni di scuola, Puškin, Gorčakov e Lomonosov, furono assegnati al Ministero degli Esteri. Superato il difficile esame che dava il diritto di lavorare all’estero, ricevette l’assegnazione all’ambasciata russa a Roma.
Ma finché la vita non divise i liceali, questi continuarono ad incontrarsi... Durante i festeggiamenti dell’anniversario del liceo nel 1817 e nel 1818, la chitarra e la voce di Korsakov risuonarono ancora nella loro compagnia. Sappiamo anche che nel 1819, nel giorno memorabile del 19 ottobre, egli voleva andare a trovare Puškin, fece un salto da lui, ma non lo trovò.
Riuscirono ad incontrarsi prima della partenza di Korsakov per l’Italia? Forse già allora la malattia lo corrodeva dentro, e lui prevedeva la sua fine vicina? Nell’album di E.A.Engel’gardt, direttore del liceo, Korsakov lasciò il seguente appunto: “Parto per Roma, esimio e caro Egor Antonovič. Dio sa se tornerò, Dio sa se rivedrò nuovamente i luoghi dove ho passato tanti bei giorni felici”. Dopo poco meno di un anno, egli non esisteva più. Morì di tubercolosi a Firenze il 26 settembre del 1820. Aveva appena 20 anni.
Tutti coloro che conoscevano Korsakov piansero amaramente la sua fine prematura. Puškin dedicò alla memoria dell’amico l’elegia “La bara del giovane”:
E’ sparito, il pupillo
Tenero dell’amore e dei sollazzi,
Intorno a lui profondo è il sonno
E il freddo della tomba quieta...
Ancora molti anni dopo Engel’gardt raccontava, citando testimoni oculari, che nella sua ultima ora Korsakov aveva composto l’epigrafe per il proprio monumento. Gli avevano detto che a Firenze non sarebbero stati capaci di scolpire le lettere russe. Allora le scrisse lui stesso a caratteri grossi su un foglio di carta ed ordinò di copiarle sul marmo. Questa epigrafe, nel testo trascritto dallo scrittore V.P.Gaevskij (anche lui liceale, ma di una classe successiva, del 1845) in base al racconto di E.A.Engel’gardt, doveva suonare così:
Viandante, affrettati verso il tuo paese natio!
Oh! E’ triste per chiunque morire lontano dagli amici!
Che sia questa l’epigrafe cui si riferiva Puškin, rievocando nuovamente a Michajlovskoe l’amico della giovinezza?
Egli dorme in silenzio, e lo scalpello amico
Non ha scritto sulla tomba russa
Poche parole nella madre lingua
Affinché un giorno vi possa trovare triste conforto
Il figlio del Nord, vagando per il paese straniero.
Il racconto sulla morte di Korsakov, e del resto anche i versi di Puškin sulla tomba russa nel lontano paese straniero, dovevano rimanere negli animi dei liceali. Non li dimenticò neppure Gorčakov, del quale Puškin scriveva nello stesso poema “19 ottobre”:
Il destino severo ci assegnò due vie diverse
E camminando nella vita, ci dividemmo presto:
Ma quando poi per caso, su un sentiero
Ci incontrammo, fraternamente ci abbracciammo.
Essendo un brillante diplomatico, il principe Aleksandr Michajlovič Gorčakov divenne in seguito Ministro degli Esteri e Cancelliere di Stato della Russia.
Ma alla metà degli anni trenta Gorčakov ricopriva la carica di segretario della missione russa a Roma, dove un tempo Korsakov aveva cominciato il suo impiego estero, interrottosi così presto. Un giorno Engel’gardt ricevette una sua lettera con una comunicazione, della quale egli informò subito un altro suo ex commilitone, V.D.Volchonskij, il “mini Suvorov” del liceo, divenuto ormai un bravo generale. “Ieri, - gli scriveva Engel’gardt il 30 agosto del 1835, ho ricevuto una lettera di Gorčakov con allegato il disegno di un piccolo monumento che egli ha eretto al nostro povero trovatore Korsakov, sotto un folto cipresso vicino al recinto di una chiesa a Firenze”.
Circa la sincerità dei sentimenti d’amicizia di Gorčakov nei confronti di Puškin si esprimono delle riserve. Ma almeno in questo caso il diplomatico è stato degno del giudizio del poeta su di lui:
Tu, Gorčakov, sei fortunato fin dai primi giorni.
Sia lode a te. Della fortuna lo splendore freddo
Non ha tradito l’animo tuo libero:
Sei il medesimo, per gli onori e per gli amici.
Engel’gardt nella lettera a Volchonskij ha aggiunto: “Questo triste regalo mi ha molto rincuorato”. Doveva rincuorare molti...
Un giorno a Mosca stavo parlando con lo scrittore e storico N.J.Ejdel’man. “Sarebbe bello ritrovare la tomba di Korsakov”, osservò egli con aria assorta.
Facile a dirsi! “Sotto un folto cipresso vicino al recinto di una chiesa a Firenze”: un’indicazione non molto precisa, anche se apparentemente ricca di dettagli per una frase sola. Vero è che la cerchia delle ricerche si era notevolmente ristretta, dopo che avevo escluso, tra la moltitudine delle chiese fiorentine, quelle che sono attaccate ad altri edifici o che non hanno i chiostri-giardini interni, e che quindi non possono essere vicino né a cipressi, né a recinti. Ma anche dopo ciò bisognava esplorare, pur limitandosi al centro della città, non meno di dieci monasteri, sconsacrati o funzionanti. Tutti hanno sofferto fortemente durante l’alluvione del 1966. Durante i successivi lavori di restauro, le lapidi sono state rimosse. Alcune di esse, mal conservate e prive - secondo il parere dei restauratori - di valore artistico o storico, potevano anche essere state distrutte. E chi, a Firenze, sa che il grande poeta russo aveva un amico di nome Nikolaj Korsakov?
Ogni volta che mi recavo nella città sull’Arno per il mio lavoro di giornalista, cercavo di trovare il tempo per le ricerche della tomba di Korsakov. Ma come si fa a limitarsi a questo obiettivo, se le celle al piano superiore dell’edificio del monastero di San Marco sono state affrescate da Fra Angelico? Come si fa a passare indifferenti davanti alle opere del Masaccio o del Ghirlandaio in Santa Maria Novella? Come si fa a non sedersi su una panchina nel giardino di Santa Croce, nella cappella dei Pazzi del Brunelleschi? Talvolta l’architettura viene paragonata ad una musica pietrificata. Nella cappella dei Pazzi la musica dell’architettura non si è pietrificata. Come una melodia appena percepibile essa si leva lungo le mura, sui pilastri; inaspettatamente, insieme con il numero e la profondità dei solchi, cambia di ritmo, diventa più forte. Poi raggiunge la cupola, ora spandendosi lentamente lungo i cornicioni, ora avventandosi a vortice nell’emisfero della volta, e, dopo avervi risuonato poderosamente, vola in cielo.
Per non parlare poi delle tombe dei Medici in San Lorenzo, di Michelangelo...
Insomma, le ricerche andavano per le lunghe. Ciò nonostante, non era possibile neanche abbandonarle, senza portarle alla fine:
Affinché un giorno vi possa trovare triste conforto
Il figlio del Nord, vagando per il paese straniero.
Dove il puškiniano “Affinché un giorno vi possa trovare”, che certamente nel poema ha il significato di una scoperta casuale, sembrava acquistare il significato di un ordine, lasciato dal poeta.
E se Engel’gardt avesse commesso qualche errore nel riferire la lettera di Gorčakov? Oppure, se Korsakov fosse stato sepolto non nella città, ma da qualche parte in periferia? Mi venne in mente la casa che sta di fronte a Palazzo Pitti, dove F.M.Dostoevskij scrisse il romanzo “L’idiota”, e un’altra, sulle colline sopra l’Arno, anch’essa con la lapide commemorativa: “In questa villa nel 1878 visse e scrisse Pëtr Il’ič Čajkovskij. L’immensità delle pianure russe e la dolcezza delle colline toscane si sono fuse nelle sue melodie immortali”. Poco lontano da questa villa c’è un’antica chiesetta. Con l’inferriata. E più in là un’altra... In questo caso le ricerche si sarebbero complicate sempre più.
Ma prima valeva forse la pena di visitare i cimiteri fiorentini.
A dir la verità, mi auguravo addirittura che l’amico di Puškin avesse trovato pace in uno di quei cimiteri che vengono chiamati “protestanti” o “inglesi”. Nella prima metà del XIX secolo la colonia inglese era la più numerosa, a Firenze, ma nel cimitero “inglese” venivano sepolti gli stranieri non cattolici, anche di altre nazionalità. Esso si trova sui viali di circonvallazione, in mezzo alla piazza che porta il nome di Donatello, sopra una bassa altura coperta di cipressi e di rose, resto di un fossato che un tempo correva lungo le mura della città, poi smantellate.
Il suo aspetto romantico fornì al pittore tedesco Arnold Bocklin l’idea per il dipinto “L’isola dei morti”. Anche adesso il cimitero sembra un’isola, non in mezzo ad un lago, come nel dipinto, bensì tra due correnti contrarie di automobili. D’altra parte, i rumori della città qui non arrivano quasi affatto, come se le cime ondeggianti degli alberi li assorbissero. Il “Cimitero Inglese”, chiuso da molto tempo, viene salvaguardato come monumento della cultura e in determinate ore è accessibile ai visitatori.
I cipressi, un recinto di ferro. Manca solo la chiesa.
Pur non avendo trovato il nome di Korsakov nel registro, secondo l’ordine alfabetico, andai lo stesso a gironzolare sulla collina. Era una mattinata di sole, ma sull’erba c’era ancora la rugiada. Il gattino del custode, tentando di intraprendere qualche gioco con me, cercava di saltare da una lapide all’altra, per non bagnarsi le zampe. Quando la cosa non gli riusciva, le scuoteva con una grazia sprezzante, facendo chiaramente capire che non era successo nulla di straordinario.
Scostando i cespugli di rose selvatiche, leggevo con attenzione le scritte semicancellate, talvolta ricoperte di muschio. Ne capitavano anche di russe, con titoli altisonanti. Più a lungo mi sono soffermato su una epigrafe senza cognome, ma con due nomi: “La negra Kalima, battezzata Nadežda, nata in Nubia... ”. Uno strano destino: probabilmente era stata portata via dalle rive del Nilo ancora bambina, da viaggiatori russi non molto frequenti a quei tempi in Africa, e sicuramente era stata portata nella Russia piena di neve, per poi morire, accompagnando i suoi signori, nel viaggio in Italia. Comunque, avendo cura di “salvare l’anima” della loro serva, essi avevano fatto scrivere sulla tomba anche il nome datole alla nascita. Mi ricordai di un disegno senza la firma dell’autore, ma con la scritta in russo “Firenze” e la data della metà del secolo scorso, che avevo visto a Roma in una esposizione per un’asta. Tra l’altro, vi si vendevano anche i resti della collezione di quadri di Zinaida Volkonskaja. In quel disegno è raffigurato un salotto, dove, accomodati in poltrone e sul divano, seggono uomini e signore. Alla porta, in piedi, una serva con un vassoio. Ma dopo tutto, se non erro, la serva del disegno non sembrava negra...
Le ricerche nei cimiteri risultarono anch’esse inutili.
Quell’estate, durante le brevi ferie, andai a Leningrado e feci una visita all’Istituto di letteratura russa dell’Accademia delle scienze. La responsabile del Puškinskij kabinet, V.V.Zajceva, aveva gentilmente preparato per me un’intera pila di volumi in folio. Ma non fu possibile rinvenirvi nessuna informazione aggiuntiva, o almeno un piccolo dettaglio che potesse suggerire un nuovo indirizzo per le ricerche.
Evidentemente, tutti i dati arrivati fino a noi sulla morte di Korsakov e sul monumento eretto da Gorčakov, erano già stati esposti da N.Gastfrejnd nel suo libro “I compagni di Puškin nel Liceo imperiale di Carskoe selo”, edito nel 1912 a Pietroburgo, tre volumi con il semplice sottotitolo “Materiali per il dizionario dei liceali del primo corso 1811-1817”.
Una volta, ancora prima delle ferie, ricevetti una lettera di S.G.Gutkevič, il quale, presentandosi come attore del Grande Teatro di Marionette di Leningrado, mi scriveva di voler costituire una specie di “Necropoli di Puškin”. Avendo raccolto più di duecento foto e saputo delle mie ricerche su Korsakov, mi chiedeva di fotografare anche le tombe che si trovavano in Italia di altre persone che avevano conosciuto Puškin.
Alcuni di loro mi erano noti. Altri decisi di trovarli, indispettito dalla sfortuna con Korsakov.
Orest Adamovič Kiprenskij fu l’autore di quel ritratto di Puškin, di cui il poeta, in forma scherzosa, ma, come immagino, non senza imbarazzo, disse:
Mi vedo come in uno specchio,
Ma questo specchio non mi lusinga.
Kiprenskij morì nel 1836 a Roma e fu sepolto nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, dove è sepolta anche la famosa pittrice tedesca Angelica Kaufmann, della quale egli conosceva sicuramente le opere. Sul pilone della quarta cappella a destra dell’entrata si è conservata una lapide, eretta coi fondi raccolti da pittori, architetti e scultori russi, abitanti allora a Roma. La lapide è ornata da un bassorilievo che raffigura una porta aperta sotto un frontone e delle torce capovolte. Al centro, tra le due mezze porte, è il testo latino dell’epitaffio, e non i cognomi degli amici del pittore, come invece è stato scritto nella bibliografia russa su Kiprenskij. Solo nella parte più bassa è inciso il nome dell’autore del bassorilievo, l’architetto N.Efimov.
Un “anziano” del luogo, abitante presso la chiesa da più di venti anni, Padre Giovanni, mi ha raccontato che, quando poco dopo la guerra furono risistemate le lastre di pietra del pavimento, tutti i resti dei defunti furono trasferiti in una tomba comune nel cimitero cittadino romano del Verano. Ma presso il cimitero stesso non è stato possibile scoprire nessuna informazione al riguardo.
Davanti ai getti d’acqua della fontana di Trevi a Roma c’è sempre tanta gente. Vengono qui anche i nostri turisti, rispettando l’usanza ormai divenuta veramente internazionale, per gettare nella vasca della fontana una monetina e con questo assicurarsi il ritorno nella Città Eterna. Ma forse non tutti sanno che nella chiesa dei SS.Vincenzo e Anastasia, che dà sulla stessa piazza, è sepolta colei che Puškin chiamò “la regina delle muse e della bellezza”, la padrona di un famoso salotto letterario e musicale, scrittrice e cantante, la principessa Zinaida Aleksandrovna Volchonskaja, che ha passato metà della vita ed è morta a Roma nel 1862. Nella prima cappella a destra c’è una grande lapide, composta di due pezzi. Dall’ampia scritta in latino risulta che essa fu eretta dalla stessa Z.A.Volchonskaja, “per sé” ed in memoria della sorella Marija Vlasova e del marito Nikita Volchonskij. Un’altra piccola lapide, probabilmente indicante il posto della tomba di famiglia, anch’essa con la scritta in latino: “Famiglia Volchonskij. Pregate per loro”, un tempo era nella parete più vicina all’ingresso della chiesa.
Il 23 giugno del 1852 a Manziana, vicino a Roma, morì Karl Pavlovič Brjullov. A Puškin lo legava una conoscenza, breve nel tempo, ma confortata da un caldo entusiasmo del poeta davanti all’arte del pittore.
Il loro incontro avvenne nella primavera del 1836 a Mosca, poco dopo il ritorno di Brjullov in patria, dopo il primo soggiorno in Italia, che durò dodici anni. Due anni prima a Pietroburgo era stato consegnato ed esposto all’Accademia delle Belle Arti il quadro “L’ultimo giorno di Pompei”, la cui fama era arrivata in Russia ancor prima. Lo aspettavano con un’impazienza che noi, oggi, non possiamo evidentemente immaginare. M.Ju.Lermontov mise in bocca a uno dei personaggi del racconto La principessa Ligovskaja la seguente battuta: “Se voi amate le arti... vi posso annunciare una notizia molto lieta: il quadro di Brjullov “L’ultimo giorno di Pompei” è in viaggio per Pietroburgo. Ne ha parlato tutta l’Italia, i francesi l’hanno criticato. Adesso sarà interessante sapere da quale parte tenderà il pubblico russo, dalla parte del buon gusto o dalla parte della moda”.
La parte illuminata della società russa si mise dalla parte del “buon gusto”. Puškin, abbozzando l’inizio della poesia “Il Vesuvio ha aperto le fauci / il fumo è uscito a nubi / il fuoco... ”, evoca le figure del dipinto che aveva colpito la sua fantasia.
E.A.Baratynskij esclamò:
Hai portato trofei pacifici
Con te sotto il paterno tetto,
E fu, l’ultimo giorno di Pompei,
Il primo per il pennello russo!
“Il quadro di Brjullov è una brillante espressione del XIX secolo”, scrisse N.V.Gogol’, aggiungendo che “la sua [del quadro] idea appartiene pienamente al gusto del nostro secolo, che, in generale, quasi avvertendo da sé la propria paurosa disgregazione… sceglie i momenti di forte crisi, sentiti dalla massa intera”.
Difficilmente sono fondati i dubbi di taluni studiosi circa il fatto che Puškin potesse, anche per scherzo, mettersi in ginocchio dinanzi a Brjullov per farsi dare il disegno che lo aveva fatto ridere fino alle lacrime: “Al ballo dall’ambasciatore austriaco a Smirne”. Chi lo sostiene, si richiama al fatto che questo episodio, descritto nelle memorie di un allievo di Brjullov, A.N.Mokrickij, non figura nelle annotazioni del suo diario. Ma nel diario di Mokrickij non si parla neanche di come egli stesso dipinse Puškin sul letto di morte, il ché, per lui, doveva essere sicuramente non meno importante. Per altro, il disegno si è conservato e si trova nell’appartamento-museo di A.S.Puškin sulla Mojka.
Non si deve dimenticare cosa rappresentasse Brjullov per i suoi contemporanei, specialmente in quel periodo promettente della sua attività artistica, quando egli era appena tornato dall’Italia. Ma anche dopo, in procinto di ripartire per l’estero e sentendo la propria fine vicina, non aveva forse Brjullov motivo di dire a M.I.Glinka che di tutte le persone che lo avevano circondato a Pietroburgo, solamente lui gli era stato “fratello in arte”? Anche i rapporti di Brjullov con Puškin durante la vita di entrambi si fondarono su una base di parità. A conferma di ciò può servire anche il fatto che il poeta gli regalò, cosa che non faceva poi tanto spesso, l’autografo di una sua poesia (“Al’fons monta in sella al cavallo”). Soltanto il tempo, imparziale, ha apportato correzioni al giudizio comparativo della loro attività artistica. Eppure, è un peccato che il più brillante dei pittori russi della prima metà del XIX secolo non abbia fatto in tempo - cosa di cui egli stesso si rammaricò - a dipingere il ritratto di Puškin. Irrealizzati rimasero anche i propositi di preparare il progetto per un monumento al poeta e di dipingere il frontespizio per le sue opere complete. Tuttavia, partendo per l’estero nel 1849, Brjullov completò un quadro iniziato poco dopo la morte di Puškin e dedicato a lui: “La fontana di Bachčisaraj”.
Tornato a Roma, Brjullov, nonostante la grave malattia, ancora continuò a lavorare, a progettare nuovi piani artistici. Dei suoi ultimi giorni ha parlato V.V.Stasov in una lettera dall’Italia al direttore della rivista “Otečestvennye zapiski”. Poco tempo fa ho trovato a Roma dei documenti sconosciuti, riguardanti la fine di Brjullov. Fra questi, un biglietto del dottore italiano, Masi, che curò Brjullov, indirizzato a Angelo Tittoni, nella casa di campagna del quale avvenne il fatto irreparabile. Su di un foglietto piegato più volte, evidentemente inviato in città tramite un messaggero occasionale o per mezzo di un conoscente, c’è scritto con una calligrafia larga:
Manziana, mercoledì
ore 2,45
Caro Angelino,
ieri il Professore è voluto tornare a Manziana, e oggi sta quasi morendo: l’emorragia cardiaca minaccia di ucciderlo. Vieni subito se vuoi vederlo vivo. Mi affretto.
Il tuo amico Masi
Nella parte superiore del foglietto Angelo Tittoni scrisse a matita: “Brjullov”.
Ma non riuscì a trovare vivo il pittore.
Un’altra lettera di Masi, trascritta in bella copia, ma evidentemente mai spedita, è indirizzata al medico pietroburghese M.A.Markus. La maggior parte di questa è dedicata a come Brjullov avesse intenzione di ringraziare Masi per i favori che gli erano stati fatti. Ma l’interesse particolare di questa lettera è racchiuso nella descrizione dettagliata delle circostanze della fine del pittore. I medici ai quali ho mostrato la fotocopia del documento sono riusciti a diagnosticare la malattia che si rivelò mortale per l’artista: aneurisma dell’aorta.
K.P.Brjullov, i cui lontani avi erano degli ugonotti francesi, è sepolto a Roma nel cimitero protestante di Monte Testaccio. Dall’entrata attuale, un po’ più a sinistra in terza fila si vede bene un grande monumento in marmo bianco, realizzato sulla base di un bozzetto dell’architetto A.F.Šurupov, con i bassorilievi su soggetti allegorici e il ritratto ad altorilievo di Brjullov, copiato dal famoso busto di I.P.Vitali.
Cent’anni dopo, scaduto il termine d’affitto del terreno occupato dalla tomba, lo Stato Sovietico ha fatto un versamento affinché il monumento rimanesse per sempre.
Il cimitero di Monte Testaccio ha avuto il suo nome dal colle artificiale sorto nei pressi, sin dai tempi antichi, sulle rive del Tevere vicino al porto fluviale. Vi si gettavano le anfore (in latino “testa”) rotte, che erano servite come tara per la conservazione e il trasporto del vino, dell’olio di oliva e del grano. Coperto ormai da tempo di terra, sul colle sono cresciuti erba, cespugli e perfino alberi. Ma ancora adesso le piogge fanno affiorare, qua e là, mucchi di cocci di argilla “modellata ancora dagli schiavi di Roma”.
Si dice che Brjullov volesse essere sepolto proprio qui. Poco prima della morte egli dipinse “Diana sulle ali della Notte”. Nella collezione dei suoi lavori di proprietà degli eredi di A.Tittoni non ho trovato questo disegno, ma esso è noto da una litografia e dal racconto di Stasov. Ecco come lo ha descritto l’ancor giovane critico russo: “La notte, donna meraviglia sotto le dita della quale vibrano le corde armoniose della lira, si libra silenziosamente in aria e sulle sue ali levate è distesa, riposando e addormentandosi, la luna, cioè Diana, che ha incrociato le mani sul petto, una sull’altra, e inclina al sonno in una indescrivibile posizione pigra del corpo. La Notte trasporta Diana su Roma immersa nel buio: si vedono i più famosi luoghi di Roma, si vede Monte Testaccio, e su di esso Brjullov ha fatto un segno, dicendo: “Qui sarà sepolto”. Nel dipinto c’è qualcosa di incredibilmente rasserenante, silenzioso. Può darsi che esattamente così armonica, silenziosa e rasserenante Brjullov immaginasse quella notte eterna da lui aspettata presto… Si sono esauditi sia il suo pensiero che il suo desiderio: l’armonica notte silenziosa di Roma e la luna romana in procinto di addormentarsi stanno per sempre su di lui e sul suo Monte Testaccio”.
Quanto a “tutti i luoghi famosi di Roma”, Stasov forse ha esagerato. Ad ogni modo nella litografia si vede solo la punta della piramide di Caio Cestio, sepolcro del tribuno romano, dietro la quale comincia il cimitero non cattolico, come esso ora ufficialmente si chiama.
La piramide Cestia è raffigurata in un altro dipinto di Brjullov, “Danza davanti all’osteria”, che si riferisce al primo soggiorno del pittore in Italia ed è imbevuto di un ben diverso stato d’animo. Dietro ad un tavolino portato all’esterno sotto l’ombra di un albero frondoso, si è disposto un giovane vestito sontuosamente con una mantellina ed un cappello in testa. Piegato verso una donna che è seduta dall’altra parte del tavolo, egli le sussurra qualcosa in un orecchio. Un’altra donna, seduta direttamente sul tavolo, suona il tamburello. Davanti a loro una coppietta danza baldanzosamente. Dalla scala esterna scende, con le mani cariche di leccornie e portando sulla testa una bottiglia di vino, il padrone dell’osteria. In lontananza, sullo sfondo della piramide, corre un calessino.
Questa non è semplicemente un’allegra scenetta. Il suo significato “piccante” sfugge a coloro che non conoscono le usanze di Roma vecchia. Eppure, Brjullov non a caso ha disegnato qui la piramide e con questo ha indicato la direzione esatta di quel che stava accadendo. Il fatto è che all’inizio del secolo scorso intorno alla piramide Cestia erano sorti locali che non giovavano alla buona reputazione di questo quartiere, il ché ebbe un suo ruolo nella scelta del luogo per il cimitero degli “impuri”: gli stranieri e i non cattolici. Secondo le leggi della Roma pontificia, era vietato seppellire coloro che non professavano il cattolicesimo non solo nelle chiese, ma anche nella “terra consacrata”. Gli stessi funerali per molto tempo si svolgevano di notte, quasi di nascosto. Certo, attorno alla metà del secolo scorso le usanze non erano più così rigide. Eppure, ancora nel 1854 l’ambasciatore prussiano, dopo i funerali della moglie, dovette salvare il pastore protestante dalla furia della folla fanatica nascondendolo nella sua carrozza.
Non è un caso che anche il fondatore del Partito Comunista Italiano, Antonio Gramsci, morto nell’ospedale del carcere durante il fascismo, sia sepolto a Monte Testaccio.
Adesso questo cimitero, salendo a terrazze verso le antiche Mura Aureliane, ha un aspetto non meno romantico di quello “protestante” di Firenze. Qui giacciono i poeti inglesi Keats e Shelley, il figlio di Goethe, molti letterati e pittori di varie nazionalità, fra cui i russi Anton Ivanov, Vladimir Grigorovič, i fratelli Pavel e Aleksandr Svedomskij. Nello stesso luogo è sepolta anche T.L.Tolstaja-Suchotina, l’autrice delle memorie consegnate qualche anno fa a Mosca da sua figlia e pubblicate da noi poco tempo fa.
E risultato che a Monte Testaccio sono sepolte altre due persone che conobbero Puškin. Uno di loro è il decabrista Zachar Grigor’evič Černyšev, morto, come ha permesso di appurare una annotazione nel registro, il 23 maggio del 1862. La tomba di Černyšev non si è conservata, ma il suo nome e cognome sono scolpiti nella lapide fissata sulle Mura Aureliane, dalla parte del cimitero. Sotto ad essa è l’ossario con le spoglie di coloro, le cui tombe sono state distrutte.
Sotto una grossa lastra di granito rosso scuro giace sul Monte Testaccio Sof’ja Alekseevna Raevskaja, nata Konstantinova, nipote di M.V.Lomonosov e vedova dell’eroe della Grande Guerra Patria del 1812, generale di cavalleria N.N.Raevskij. Puškin fu in rapporti d’amicizia con molti membri della loro famiglia, e per la stessa Sof’ja Alekseevna si adoperò dopo la morte del marito per farle ottenere la pensione.
Una delle figlie di Raevskij, Elena, è sepolta nel duomo di San Pietro Apostolo a Frascati, una cittadina molto pittoresca vicino a Roma. Si ritiene che potrebbe essere stata dedicata a lei la poesia scritta dal poeta durante il suo viaggio con la famiglia dei Raevskij in Crimea nel 1820:
Ahimé, perché ella risplende
Di beltà dolce e fugace?
Ella vistosamente appassisce
Nel fior della gioventù vivace...
Elena Raevskaja, che si distingueva per la sua salute cagionevole, visse molto più a lungo del poeta. Sulla prima colonna a sinistra nel duomo è fissata una lapide di marmo, nella quale era inserito un piccolo ritratto. Dopo il bombardamento aereo che Frascati subì durante la seconda guerra mondiale il ritratto non si è più trovato ed è ora sostituito da una copia approssimativa, così come è stato sostituito con un vetro un pezzo di pietra blu, che formava sui suoi bordi una croce.
Ma perché Elena Raevskaja fu sepolta nella chiesa? Questa domanda non si pone né nei riguardi di Z.A.Volkonskaja né nei riguardi di O.A.Kiprenskij, poiché è noto che entrambi a suo tempo si convertirono al cattolicesimo. Kiprenskij, probabilmente, lo fece per regolarizzare il suo matrimonio con un’italiana. Zinaida Volkonskaja ebbe verso la fine della sua vita una crisi di misticismo e, come si vede dai suoi appunti, alcuni passi dei quali sono stati pubblicati in un libro dedicato qualche anno fa alla sua vita a Roma, sognò di convertire al cattolicesimo persino l’imperatore Nicola I, e quindi con lui anche i suoi sudditi!
Il priore del duomo, Don Giovanni Busco, al quale ho rivolto questa domanda, mi ha detto che secondo lui Elena Raevskaja era polacca. Il mio racconto sulla famiglia Raevskij e sulla loro amicizia con Puškin lo ha interessato. Dopo avermi accompagnato in una stanzetta che serve da archivio, da lui riordinata poco tempo prima, egli ha tirato fuori da uno scaffale un vecchio registro della chiesa. Da esso risulta che “Elena Raevskaja, figlia di Nikolaj, condottiero russo”, nonostante fosse nata nella “apostasia greca”, si era “rappacificata” con la chiesa cattolica romana. Infine, nello stile dell’epitaffio latino all’interno del duomo, a mio parere, si può indovinare la mano di Zinaida Volkonskaja, la quale attraverso la famiglia del marito era in parentela con i Raevskij. La sorella di Elena, la decabrista Marija Nikolaevna Volkonskaja, e Zinaida Aleksandrovna Volkonskaja erano maritate con due fratelli.
La descrizione dettagliata della “rappacificazione” di Elena Raevskaja con la chiesa cattolica si conclude nel registro con una notizia che mette in dubbio la data conosciuta della sua morte: 4-16 settembre del 1852 (nel XIX secolo il calendario giuliano si differenziava da quello gregoriano di dodici giorni). Nel “Liber mortuorum ab an. 1843 ad an. 1866” sul retro del foglio 69, n. 73, scritto “nell’anno di grazia 1852 il giorno 12 settembre”, si dice che ella, “confortata nell’agonia dalla presenza del prete, ha resa l’anima a Dio il giorno 10 del corrente mese nell’ora settima della notte. Il suo corpo alle ore 24 3/4 del giorno 11 è stato trasportato nella chiesa cattedrale e parrocchiale e oggi, dopo la messa funebre, è stato sepolto in questo luogo santo”. Il conto delle ore viene fatto col vecchio sistema italiano dal tramonto del sole.
Dunque, la morte avvenne il 10, e non il 16 settembre. Ma da dove poteva scaturire l’errore? Sulla lapide nella chiesa c’è scritto: “OBIIT IV IDUS SEPT MDCCCLII”. Qualcuno potrebbe aver tradotto “IDUS”, “le idi”, con la parola “giorno”, traducendo così “morta il giorno 4 settembre dell’anno 1852”, quando invece è scritto “morta 4 giorni prima delle idi di settembre dell’anno 1852”, il ché corrisponde al 10 settembre del calendario gregoriano.
Un errore, questa volta nella lapide, è stato forse commesso anche per la data di nascita di Elena Raevskaja. Secondo i nostri studiosi essa cade (secondo il calendario giuliano) il 29 agosto del 1803. Il prete, facendo l’appunto nel libro, non conosceva questa data e scrisse che ella aveva “intorno ai 50 anni”. Nella lapide affissa più tardi nella chiesa, invece, “ella visse 48 anni e 7 giorni”. Non coincidono non solo il giorno e il mese, ma neanche l’anno di nascita.
Tra i conoscenti di Puškin morti in Italia c’è anche S.G.Lomonosov, col quale, come si è giа detto, egli stesso, Gorčakov e Korsakov cominciarono il servizio al Ministero degli Esteri. Quanto al luogo della sua inumazione, le informazioni ricevute da Leningrado erano abbastanza precise: la chiesa del cimitero greco a Livorno. Tuttavia questa città rimase a lungo fuori dagli itinerari dei miei viaggi. Finalmente si presentò il caso di ritornarvi, anche se di passaggio.
Il cimitero greco si trova alla periferia della città, vicino all’uscita sulla strada che porta a Pisa. In mezzo a un compatto e lungo muro di pietra si erge una casa a due piani, che si restringe nell’estremità alla maniera delle antiche costruzioni egiziane, un metodo che spesso si riscontra nell’architettura neoclassica. Dalla strada una porta conduce nella casa. Ai suoi lati, due campanelli. Tabelle a grossi caratteri informano che dopo la porta a sinistra è situato il cimitero olandese, a destra quello greco.
Suono il campanello a destra. La porta mi viene aperta da una donna che si presenta come la moglie del guardiano. Gli spieghiamo lo scopo della nostra venuta, ma lei risponde che senza il permesso del console greco, il signor Mondalis, nella chiesa della Santa Trinità ormai non fanno entrare nessuno. L’autorizzazione si può chiedere anche per telefono.
Fatto il numero, porta avanti lei stessa le trattative col console, ripetendo per nostra conoscenza ciò che egli le risponde: “Do il permesso, in via eccezionale, di aprire la chiesa, ma niente fotografie...”. Io comincio a dimenare le mani, prendo la cornetta e spiego di nuovo che, essendo un giornalista, vorrei tanto fotografare la tomba che sto cercando, se, naturalmente, esiste ancora. Dopo qualche tentennamento il console dà l’autorizzazione anche per questo.
Girando con difficoltà la grande chiave nella serratura arrugginita, la moglie del guardiano comincia preventivamente a scusarsi per il disordine dentro la chiesa. Qualche anno addietro, dice, cominciarono a restaurarla, ma non finirono per mancanza di soldi. Oltre tutto, lavorarono male: l’intonaco nuovo va in pezzi. Quello vecchio, invece, anche se si è scurito col tempo, regge ancora. E’ evidente che le condizioni in cui si trova la chiesa costituiscono appunto la causa delle limitazioni poste dal console.
Attraverso la porta spalancata la luce del sole irrompe in uno spazioso e oscuro locale sotto una larga cupola. L’iconostasi, con i battenti delle porte regali, è collocata non lungo l’asse principale dell’edificio, bensì a destra dell’entrata. Il pavimento davanti ad essa è coperto da grandi lastre nere di pietra, tutte di formato uguale. Su una di queste, posta proprio davanti all’altare, nella terza fila, è ripetuta due volte, in russo ed in francese, la scritta: “Qui giace il Consigliere Segreto Sergej Grigor’evič Lomonosov, inviato straordinario presso la Corte Olandese, spirato a Firenze il 13-25 ottobre del 1857”. S.G.Lomonosov morì a San Donato, nella tenuta fiorentina di A.N.Demidov.
Dopo aver ispezionato la chiesa, ci stavamo già avviando verso l’uscita, quando vidi, attaccato al muro proprio accanto alla porta, un monumento di marmo a A.Ju.Italinskij, “ambasciatore russo presso la Santa Sede e la corte del granducato di Toscana, morto a Roma il 15-27 giugno del 1827 all’età di 84 anni”.
Questo nome si incontra spesso nella bibliografia sugli scrittori e pittori russi che vissero o lavorarono a Roma oppure semplicemente la visitarono negli anni venti del secolo scorso. Andrej Jakovlevič Italinskij fu una persona molto colta, dottore in medicina, membro onorario dell’Accademia russa delle arti e dell’Accademia delle scienze. Interessandosi vivamente di archeologia, raccolse un’eccezionale collezione di antichità. In un articolo attribuito a Stendhal, poco conosciuto e, se non erro, non tradotto da noi, sugli ambasciatori stranieri a Roma, così viene descritto l’incontro con lui: “Entrai nella sala accanto... e mi trovai vicino ad Italinskij, l’ambasciatore russo, appena arrivato. Già da molto egli era a Roma un centro di erudizione. Nel suo aspetto serio e da filosofo, nella sua figura un po’ curva, si riconoscevano facilmente le conseguenze del suo interesse per lo studio e della sua vita sedentaria. Italinskij raramente lasciava il suo palazzo in Piazza Nuova; viveva nell’ambiente di un’accademia continuamente riunita, composta da antiquari, orientalisti e studiosi di Roma...”. Venendo da Stendhal (nell’articolo si parla anche del successo dell’attività diplomatica dell’inviato russo nella Roma cattolica), un giudizio di questo tipo non può essere che una lode. Per quanto riguarda la descrizione dell’aspetto di Italinskij, corrisponde con sufficiente precisione al suo ritratto, dipinto da Orest Kiprenskij.
Ma in quel momento non pensavo solo a Italinskij. Il pensiero che mi balenò mentre fotografavo la lapide col nome di Lomonosov sembrava trovare conferma in quel momento. “Uno è morto a Firenze, l’altro a Roma. Entrambi sono sepolti qui. Si vede che a quei tempi il cimitero greco di Livorno era l’unico, almeno nell’Italia centrale, dove le esequie venivano celebrate secondo il rito protestante. Forse anche Korsakov...”, pensai.
Il caldo sole del sud aveva oltrepassato da tanto il mezzogiorno; ma sembrava non avesse ancora rinunciato all’idea di bruciacchiare l’erba secca fittamente ricoperta dalle pigne resinose dei cipressi. Era l’ora di pranzo e la donna che ci accompagnava guardava ormai con impazienza l’orologio al polso. Certo, avrei dovuto chiederle scusa per il ritardo. Ma partire senza fare il giro del cimitero sarebbe stato veramente un peccato.
Cominciammo dalla fila disposta lungo il muro. Infatti, Engel’gardt aveva scritto: “Vicino al recinto della chiesa”. Ma se si ammette che egli avesse sbagliato il nome della città, poteva aver sbagliato anche nella descrizione del posto della tomba. Cosi come nella chiesa, anche qui si incontravano nomi russi, ma tra questi non c’era Korsakov.
Rimanevano le ultime due file, dietro alle quali cominciava il territorio dell’altro cimitero, quello olandese. Solo allora mi accorsi che quello greco ne è diviso da un’inferriata metallica.
Su uno dei monumenti quasi attaccati all’inferriata era tracciato il nome di Korsakov!
Tuttavia, ora che la ricerca, tanto lunga, era terminata, era difficile credervi. Ancora e ancora rileggevo le brevi righe in francese, consumate dal sole, dal vento e dalla pioggia:
Qui giacciono le spoglie mortali di
NIKOLAJ KARSAKOV,
spirato in Firenze
l’8 ottobre del 1820.
La data è indicata secondo il nuovo stile. Nel cognome c’è un errore. Se Gorčakov pronunciava il cognome di Korsakov con l’accento sulla seconda sillaba, egli poteva essere stato tradito dalla pronuncia pietroburghese, nella quale la “o” senza accento suona quasi come una “a”. Tuttavia, in contrasto col parere che certe volte si riscontra, è corretto pronunciare Kòrsakov, e non Korsàkov, o Rimskij-Korsàkov.
Tra l’altro, l’amico di Puškin ed il grande compositore appartenevano alla stessa stirpe, i cui capistipite erano stati il ceco Zigmund Korsak e suo figlio Venčeslav, arrivati in Russia nel 1380. Nel XVII secolo ai membri di un ramo di questa stirpe, in virtù della loro provenienza da un paese del Sacro Romano Impero, fu dato il diritto di portare il doppio cognome Rimskij [Romano] - Korsakov.
Sul monumento, sopra l’epigrafe, la mano di un bambino aveva disegnato delle ridicole figure umane. Proprio come scrisse Puškin:
E che presso l’entrata della tomba
Giochi una giovane vita...
La moglie del guardiano, confusa per il fatto che noi potevamo intenderlo come un segno di irrispettosità nei confronti della memoria del defunto, gridò a sua figlia di portargli immediatamente una spugna bagnata e cominciò in fretta e furia a strofinare la superficie marmorea.
Ma dov’è l’epitaffio, composto dallo stesso Korsakov? Esso, pochissimo cambiato rispetto al testo di V.P.Gaevskij, è inciso sotto in russo, sul retro del monumento:
Viandante, affrettati verso il tuo paese natio!
Oh! E’ triste per me morire lontano dagli amici!
Gaevskij scrisse “per chiunque”; qui invece è “per me”.
Il monumento per quei tempi è semplice ed umile. Non assomiglia ai sepolcri sormontati da figure in grandezza naturale, che non sono pochi neanche al cimitero di Livorno. Su una base quasi interrata si erge un blocco di marmo bianco. Le sue uniche decorazioni sono le due fasce ornamentali che lo cingono ed il prolungamento “in stile greco”. Sulla sua parte frontale è raffigurata in un semicerchio una farfalla in procinto di volar via; sul retro, tre gambi con i bulbi di papavero legati, simbolo dell’anima e del sonno nella mitologia degli antichi. Ma il monumento non è poi tanto piccolo: è poco più basso dell’altezza d’uomo.
Colui che lo eresse era predestinato col tempo a rispondere alla domanda di Puškin:
Orsù, a chi in vecchiaia
Toccherà commemorare da solo il giorno del Liceo?
E realizzare la sua predizione:
Amico sventurato! Fra le nuove generazioni
Noioso ospite, superfluo, estraneo,
Ricorderà noi ed i giorni delle riunioni,
Chiudendo gli occhi con mano tremante...
Trascorsi sessant’anni nella carriera diplomatica, e pur conservando, dopo essersi dimesso, i titoli onorifici di Cancelliere e membro del Consiglio di Stato, Aleksandr Michajlovič Gorčakov morì in solitudine il 22 febbraio del 1883, ultimo dei ventinove liceali della prima leva. Adesso, quando occorrerebbe rendere merito alla sua memoria, si è scoperto che non si sono conservati né la sua tomba né il cimitero stesso vicino a Leningrado, nel quale egli fu sepolto.
Perché tuttavia Engel’gardt scrisse che il monumento a Korsakov fu eretto da Gorčakov a Firenze? Adesso ovviamente su questo conto si possono fare soltanto delle supposizioni. Eppure volevo controllare che le spoglie di Korsakov non fossero state traslate più tardi al cimitero di Livorno, da Firenze. Ma nella casa del guardiano non c’erano registri. Ci dissero che per tutte le domande bisognava rivolgersi allo stesso signor Mondalis.
Ci toccò rimandare la partenza da Livorno di un altro paio d’ore. La “siesta” del dopo pranzo nei paesi mediterranei è come un rito sacro. Non è permesso a nessuno, per nessun motivo, interromperla.
Nell’attesa che in città la vita ricominciasse, decidemmo di visitare la casa dove era nato Amedeo Modigliani. Può sembrare strano, ma trovarla risultò altrettanto difficile. Era logico supporre che essa si trovasse nella via portante il nome del pittore. Via Modigliani è segnata nella carta della città, ma, una volta arrivati, vedemmo un nuovo quartiere, costruito con scatoloni di cemento armato. Tornammo al centro. Cominciammo a chiedere ai passanti. Questi, sgomenti, si limitavano a stringersi nelle spalle, o, nel caso migliore, ci indirizzavano alla casa del compositore Pietro Mascagni, l’autore della popolare opera “Cavalleria rusticana”, dove proprio poco prima era stata collocata una lapide commemorativa. Solo quando i negozi cominciarono a riaprire, in un salone d’opere d’arte ci indicarono l’indirizzo esatto della casa del Modigliani.
* * *
Il console era già occupato con un altro visitatore. Fui condotto nel suo studio e mi pregarono di restare seduto in poltrona. Il console incollò a lungo delle marche da bollo su dei fogli. Poi, foglio dopo foglio, li timbrò. Quindi, sfogliandoli di nuovo, li firmò. Quando finalmente arrivò il mio turno, si alzò, mi accompagnò gentilmente fino alla sedia che stava di fronte al suo tavolo, si mise a sedere e mi fece la seguente domanda con tono professionale:
- Deve esumare?
Dalla successiva conversazione risultò che la colonia greca a Livorno, un tempo la città portuale più importante del granducato di Toscana, attualmente era composta solamente dal console stesso e da sua moglie; che il cimitero era chiuso da tempo e che i registri della parrocchia si trovavano presso l’istituto greco di ricerche bizantine e post-bizantine, a Venezia.
* * *
Approfittando del primo viaggio a Venezia, feci una visita all’istituto. Creato negli anni cinquanta, esso ha sede in un antico palazzo vicino a Piazza San Marco, simile a qualsiasi altro del centro della città, sulla laguna, in un labirinto di stradine strette, vicoli ciechi, canali. Solo che le strade ed i ponti qui hanno spesso nomi greci, altra testimonianza del grande ruolo avuto da Bisanzio e dai bizantini nella storia della Serenissima. A giudicare dal fatto che presso l’istituto sono stati creati, in maggior parte con il contributo di donazioni private, un buon museo di antiche icone ed una ricca biblioteca, la colonia greca a Venezia anche adesso dovrebbe essere un po’ più numerosa che a Livorno.
Questa volta non dovetti spiegare a lungo lo scopo della mia venuta. Il direttore non lo trovai: era in ferie. Ma il bibliotecario che mi aveva ricevuto capì dalla prima parola chi fossi e per che cosa fossi venuto. Probabilmente, il console l’aveva informato della mia visita da lui. Tuttavia, come mi dissero, i registri della chiesa di Livorno della prima metà del secolo scorso non si sono conservati. Quello che misero davanti a me sul tavolo, cominciava dal 1850. Vi era la registrazione riguardante la fine di S.G.Lomonosov. Comunque, accertai che, a partire dal 1850, il nome di Nikolaj Korsakov non era più apparso nel registro. Evidentemente, la sepoltura aveva avuto luogo a Livorno subito dopo la sua morte.
Gorčakov nella sua lettera a Engel’gardt poteva anche non aver nominato la città in cui aveva eretto il monumento, mentre l’ex direttore del Liceo, sapendo che Korsakov era morto a Firenze, poteva aver dedotto che era sepolto lì.
…“Triste conforto”? Ad esser sinceri, non ho mai provato né tristezza né cruccio, stando in piedi dinanzi alle tombe degli amici di Puškin, nonostante mi fossero cari. Forse mi erano cari non in quanto tali, ma attraverso Puškin, o più precisamente attraverso la poesia di Puškin? Una cosa è certa: ormai ciò che ci commuove non è tanto il racconto sulla morte di Korsakov, quanto i versi dedicati a lui.
Ma in fondo,
Due sentimenti ci sono stranamente vicini,
In essi il cuore trova nutrimento:
L’amore verso il focolar natio,
L’amore verso le paterne bare.
Probabilmente, è proprio per questo che ho cercato il monumento eretto da Gorčakov sulla tomba di Korsakov.
Firenze-Livorno-Venezia-Roma
1976 - 1978.
[Da "Neva", 1978, N°6, pp. 180-188. Traduzione di Mark Bernardini, pubblicata in “Rassegna Sovietica”, 1979, n. 3, pp. 167-184]