Ottantunesimo notiziario settimanale
di lunedì 10 giugno 2024 degli italiani di Russia. Buon ascolto e buona
visione.
Attualità
A oggi è assolutamente evidente
che al potere, a Kiev, c’è un regime apertamente nazista, che sta commettendo
un numero incalcolabile di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani in
tutti gli ambiti della vita pubblica.
I metodi nazisti messi in atto da
Kiev sono totalmente rivolti alla popolazione russofona dell’Ucraina.
Attualmente, in questo Paese tutto ciò che è russo risulta proibito (la lingua,
la cultura, l’istruzione, le pubblicazioni a stampa e i media).
Nell’ambito dell’istruzione, il
processo di derussificazione ha raggiunto il suo culmine:
L’insegnamento delle materie
scolastiche in lingua russa, come anche l’apprendimento di quest’ultima, sono
proibiti;
Tutte le opere letterarie
composte da autori russi e sovietici (ad eccezione di quelli ucraini) sono
state eliminate dai programmi scolastici previsti per le materie letterarie;
I libri in lingua russa vengono
ritirati dalle biblioteche;
Si proibisce addirittura ad
alunni e insegnanti di parlare in lingua russa, e non solo nel corso delle lezioni,
ma anche nei momenti di normale conversazione durante le pause di ricreazione;
Le autorità di Kiev non si
limitano ad appoggiare gli attacchi condotti ai danni degli edifici religiosi
della Chiesa ortodossa ucraina canonica, ma addirittura li autorizzano per
legge.
E nonostante tutto ciò, tali
inaudite violazioni dei diritti umani commesse da Kiev vengono del tutto
taciute dalla maggior parte delle organizzazioni non governative occidentali e
degli organismi internazionali per la tutela dei diritti umani.
Quest’anno, in particolare, si è celebrata
l’importante ricorrenza legata al 225esimo anniversario dalla nascita del
"Sole della poesia russa". Ed è proprio con questo appellativo, ormai
saldamente radicato nel mondo letterario internazionale, che viene riconosciuta
l’importanza storica della figura di Aleksandr Puškin.
Con tutto il suo genio, la sua
creatività e la sua anima, Aleksandr Puškin si sentiva vicino al popolo
italiano, alla sua cultura e alle sue tradizioni; e con il popolo italiano
condivideva moralità, amore per la vita e aspirazione alla bellezza. Tuttavia,
il destino volle che Aleksandr Puškin non mettesse mai piede sul suolo italiano
nel corso di tutta la sua vita.
Il bellissimo monumento dedicato
ad Aleksandr Puškin, opera dello scultore Jurij Orechov e inaugurato a Roma nel
2000, in occasione del 201esimo anniversario dalla nascita del poeta, rimane un
simbolo perenne del valore universale che la cultura e la letteratura russa
hanno per il mondo intero.
Ma se Aleksandr Puškin si
trovasse in Italia oggi, sarebbe forse felice ed ispirato come lo sarebbe stato
venendovi nel XIX secolo?
L’Italia sostiene l’Ucraina politicamente e militarmente, ma afferma
anche che l’Italia non è in guerra con la Russia. Vorrei che lei commentasse la
posizione della leadership italiana.
Vladimir Putin: Vediamo che la
posizione del governo italiano è più contenuta rispetto alla politica di molti
altri Paesi europei e noi, prestando attenzione a questo, la valutiamo di
conseguenza. Vediamo che la russofobia cavernicola non è esageratamente
presente in Italia, e anche questo lo teniamo in conto. Ci auguriamo vivamente
che alla fine, forse dopo che la situazione si sarà in qualche modo modificata
sul tema ucraino, saremo in grado di ripristinare le relazioni con l’Italia, e
forse anche più velocemente che con qualsiasi altro Paese europeo.
Il secondo momento è stato
l’intervento di Putin alla sessione plenaria del 7 giugno. Il 95% della
relazione era dedicato alle questioni di economia interna ed estera.
I conflitti geopolitici in corso
nel mondo, dall’Ucraina alla Palestina, hanno radici molto profonde e vanno
molto oltre le tensioni bilaterali regionali. Nel suo lungo discorso alla
sessione plenaria del Forum economico internazionale di San Pietroburgo
(SPIEF), il presidente della Russia, Vladimir Putin, ha dichiarato che il mondo
occidentale “vuole mantenere un ruolo egemone, che gli sta sfuggendo”.
Per il leader russo l’economia
globale sta entrando in un’era di cambiamenti radicali e il sistema economico
della Russia è pronto ad affrontare queste sfide. “L’economia globale è entrata
in un’era di cambiamenti seri e fondamentali. Un mondo multipolare con nuovi
centri di crescita, investimenti e legami finanziari tra gli Stati e le imprese
sta prendendo forma. L’economia russa risponde a queste sfide, cambia e si
adatta a questi cambiamenti”, ha sottolineato Putin, secondo cui “il Governo
della Russia continuerà a sostenere i cambiamenti positivi nella società e
nell’economia”.
Nonostante la guerra ibrida,
lanciata dall’Occidente contro la Russia, Mosca è interessata a collaborare con
i Paesi che hanno un interesse reciproco a lavorare insieme. “Siamo aperti – ha
dichiarato Putin – alla più ampia cooperazione con tutti i partner interessati,
dalle società straniere ai gruppi internazionali, alle associazioni e ai
Paesi”.
Secondo il leader russo malgrado
il pressing degli Stati Uniti e dei loro alleati, la Russia è diventata la
quarta maggiore economia del mondo in termini di parità di potere d’acquisto,
superando addirittura il Giappone e la Germania, ha detto Putin, facendo
riferimento a un recente rapporto della Banca mondiale: “Capiamo benissimo – ha
detto il presidente – che le posizioni di leadership devono essere costantemente
confermate e rafforzate. Anche gli altri Paesi non riposano sugli allori”.
Attualmente il tasso di sviluppo
economico della Russia supera la media globale: nel primo trimestre del 2024 il
prodotto interno lordo è aumentato del 5,4 per cento. “Alla fine dello scorso
anno, come sapete, la crescita del PIL della Russia ammontava al 3,6 per cento.
E a partire dal primo trimestre di quest’anno, è pari al 5,4 per cento. Vale a
dire, i nostri ritmi di crescita superano la media globale. Soprattutto quando
tali dinamiche sono determinate principalmente da industrie non di materie
prime”, ha sottolineato il leader russo, aggiungendo che la Russia deve
impegnarsi molto per garantire i tassi di crescita “elevati e stabili”, nonché
la “qualità di questa crescita economica a lungo termine di tempo”.
Lo sviluppo delle produzioni
interne russe prevede la continua riduzione della dipendenza del Paese dalle
importazioni, la cui quota, secondo Putin, nell’economia russa dovrebbe
scendere al 17% del PIL entro il 2030. Putin ha sottolineato la necessità
urgente di garantire “la sovranità finanziaria, tecnologica e del personale”
della Russia, aumentando anche la capacità produttiva e la competitività dei
prodotti russi sia sui mercati internazionali, che su quello interno.
Gli scambi commerciali tra la
Russia, la Cina e i Paesi asiatici nei quattro anni passati sono aumentati del
60 per cento
Nonostante tutti gli ostacoli
politici, economici e finanziari, la cui quintessenza sono molte centinaia di
“sanzioni illegittime”, la Russia rimane uno dei principali attori del
commercio mondiale, sviluppando attivamente la logistica e ampliando di anno in
anno la geografia della cooperazione. Il presidente russo ha notato che la
Russia è riuscita a riorientare il proprio commercio con l’estero verso i
cosiddetti “Paesi amici” con i quali attualmente avvengono “tre quarti di tutti
gli scambi commerciali della Russia”. In particolare, nel periodo compreso tra
il 2020 e il 2023, gli scambi commerciali di Mosca e Paesi asiatici con a capo
la Cina, hanno dimostrato una crescita del 60 per cento. Inoltre, nel periodo
indicato il commercio tra la Russia e i Paesi del Medio Oriente è raddoppiato.
Sono in costante aumento (+69%) gli scambi con l’Africa e con i Paesi
dell’America Latina (+42%).
La Russia dedica molta attenzione
alle relazioni con le economie “in rapida crescita”, perché “a loro spetterà
determinare il futuro dell’economia globale”. Putin ha aggiunto che la fiducia
nei sistemi di pagamento occidentali è stata “completamente minata” dagli
stessi Paesi occidentali. “A questo proposito – ha detto il presidente russo –
voglio notare che l’anno scorso la quota di pagamenti per le esportazioni russe
nelle cosiddette ‘valute tossiche’ di Stati ostili è stata dimezzata”. I Paesi
del gruppo BRICS stanno sviluppando attivamente il loro sistema di pagamenti
internazionali, che sia indipendente da quello “occidentale”. “I BRICS stanno
lavorando alla formazione di un sistema di pagamento indipendente che non sia
soggetto a pressioni politiche, abusi e interventi esterni”, ha detto Putin,
secondo cui i “Paesi del mondo sono in corsa per rafforzare la loro sovranità”.
Questo processo globale si svolge a tre livelli essenziali: quello statale,
culturale ed economico. “Allo stesso tempo, i Paesi che hanno recentemente
agito come leader e hanno trainato lo sviluppo globale stanno cercando con
tutte le loro forze, sia buone che cattive, di mantenere un ruolo egemonico”,
ha detto Putin, secondo cui “attualmente il mondo sta assistendo a una crescita
tecnologica esplosiva, che sta cambiando tutti gli ambiti della vita umana”.
C’erano però anche alcuni accenni
di politica internazionale, ed è sintomatico notare come vi siano stati
presentati dai media mainstream italiani. I punti sia del 5 che del 7 giugno.
Putin e la minaccia nucleare: “Potremmo fornire missili che colpiscano
Paesi NATO”.
Cosa ha detto in realtà? Noi
stiamo considerando che, se qualcuno ritiene possibile fornire armi del genere
in una zona di combattimento al fine di colpire il nostro territorio e di
crearci problemi, allora perché mai noi non avremmo il diritto di fornire le
nostre armi di tipo analogo nelle regioni del mondo da dove verranno attaccati
obiettivi sensibili dei Paesi che stanno facendo la stessa cosa nei confronti
della Russia? Ovvero la risposta potrebbe essere simmetrica. Ci penseremo.
Putin minaccia la NATO: “Non costringetemi a usare il nucleare”.
Cosa ha detto in realtà? Vediamo
di riuscire non solo a evitare l’uso delle armi nucleari, ma anche a evitare le
minacce di usarle. Per chissà quale ragione, in Occidente ritengono che la
Russia non le userà mai; tuttavia, noi abbiamo la nostra dottrina nucleare.
Andate a vedere cosa c’è scritto: se le azioni di qualcuno minacciano la nostra
sovranità ed integrità territoriale, consideriamo legittimo utilizzare tutti i
mezzi a nostra disposizione. Questa cosa non va presa alla leggera, con
superficialità, va presa con serietà professionale. E spero sarà proprio questo
il modo in cui tutti, nel mondo, affronteranno la soluzione dei problemi di
questo tipo”.
La rabbia di Putin l’escluso: “Gli USA vogliono l’egemonia”.
Cosa ha detto in realtà? Dell’Ucraina,
in realtà, non interessa niente a nessuno. S’interessano solo alla potenza
degli Stati Uniti stessi, che non si battono né per l’Ucraina, né per il popolo
ucraino, ma per la propria potenza e per la supremazia nel mondo. E non
vogliono in nessun caso ammettere il successo della Russia perché ritengono
che, in tal caso, a esserne danneggiata sarebbe la leadership USA.
Le parole sull’Ucraina ignorate dai media italiani.
Cosa ha detto in realtà? Tutti
ritengono che sia stata la Russia a iniziare la guerra in Ucraina, ma nessuno,
sottolineo nessuno in Occidente, in Europa, vuole ricordare com’è iniziata
questa tragedia. E’ iniziata con un colpo di Stato in Ucraina, con un colpo di
Stato incostituzionale: quello è stato l’inizio della guerra. E’ forse colpa
della Russia se è avvenuto un colpo di Stato? No. E coloro che oggi tentano di
accusare la Russia si sono forse scordati che i ministri degli esteri di
Polonia, Germania e Francia sono andati a Kiev ad apporre la propria firma su
un accordo per la risoluzione della crisi politica interna, assumendo il ruolo
di garanti, così che la crisi dovesse concludersi in modo pacifico e in
conformità alla costituzione? In Europa, Germania compresa, preferiscono non
ricordarselo.
In Italia si dovrebbe sapere che questa
sinfonia rappresenta un richiamo diretto a uno degli episodi più funesti della
Seconda Guerra Mondiale: l’assedio di Leningrado, messo in atto dal regime di
Hitler e durato ben 872 giorni, che portò alla morte di quasi un milione di
cittadini assolutamente innocenti, e che da solo assunse i tratti del più grave
crimine di genocidio mai attuato nei confronti della popolazione dell’ex Unione
Sovietica, e quindi di russi, bielorussi, ucraini, ebrei, e molti altri; un
abominio paragonabile soltanto allo sterminio pianificato della popolazione
ebraica d’Europa da parte dei nazisti. Nell’agosto del 1942, la Sinfonia venne
eseguita nella Leningrado sotto assedio. Fu tale evento ad accentuarne
l’importanza simbolica e a fare in modo che la Sinfonia andasse definitivamente
ad occupare un posto speciale nella musica e nella cultura a livello mondiale.
A suscitare quindi particolare
sconcerto e profonda indignazione sono state la grave mancanza di rispetto e
l’empietà mostrate dalla Dirigenza dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e
dal giornalista del quotidiano “la Repubblica” Andrea Penna nel permettere che
l’esecuzione in concerto della Sinfonia N°7 “Leningrado”, di Dmitrij Šostakovič,
ovvero l’esecuzione di quello che è un monumento musicale perenne innalzato
alla memoria degli eroi di Leningrado, sacro non solo per ogni russo, non solo
per ogni abitante di San Pietroburgo, ma anche per un qualunque altro individuo
dotato di buon senso, venisse presentata come un inno alla resistenza e alla
lotta che il regime di Kiev sta portando avanti contro la Russia; un regime,
quello di Kiev, che non solo si è autoproclamato apertamente “erede” dell’ideologia
dei collaborazionisti nazisti Bandera e Šuchevič, ma che si è anche macchiato di
orribili crimini nel corso della guerra che esso stesso ha scatenato nel 2014
contro la popolazione del Donbass.
L’autore del pezzo pubblicato su
“la Repubblica” Andrea Penna e la Direzione di una così importante istituzione
per la musica classica quale l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma
sono consapevoli del fatto che con questo loro articolo dedicato all’evento, di
fatto, hanno commesso una palese violazione delle più comuni norme etiche e
professionali e che, di fatto, si sono espressi in difesa di principi
ideologici la cui natura misantropica e la cui illegalità sono state
riconosciute dal diritto internazionale a seguito del Processo di Norimberga,
svoltosi tra il 1945 e il 1946?
Sarebbero quindi doverose delle
scuse sia da parte della Direzione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
che della testata giornalistica “la Repubblica” per aver consentito che venisse
oltraggiata non soltanto la memoria degli abitanti di Leningrado, uccisi dai
bombardamenti e morti di fame e stenti durante l’assedio nazista della città,
ma anche quella di tutte le persone che rimasero vittime degli orrori del
nazifascismo. Delle scuse che, ovviamente, non giungeranno mai.
Il primo ministro ungherese
Viktor Orbán ritiene che l’Unione europea si stia preparando a una guerra con
la Russia sul territorio dell’Ucraina. La NATO sta esplorando le modalità per
entrare in azione militare.
E nei media occidentali in questo
momento si sta scatenando l’isteria, simile a quanto accaduto prima della Prima
e della Seconda Guerra Mondiale.
Orbán lo grida quasi ogni giorno
e non certo perché è in campagna elettorale, come i nostri politici. Speriamo
che lo ascoltino e non faccia la fine di Cassandra.
L’Assemblea parlamentare della
NATO chiede in un comunicato che le armi occidentali possano essere usate anche
sul territorio russo. Secondo l’Ungheria ciò è pericoloso e potrebbe portare
allo scoppio di una guerra mondiale!
Gli Stati membri dell’UE inviano
munizioni, carri armati, aerei e sistemi missilistici all’Ucraina. Diversi
leader europei vogliono inviare soldati europei in Ucraina. Diversi Stati
membri stanno pianificando di reintrodurre o espandere la leva obbligatoria!
Chiedono all’Ungheria di fare lo
stesso. Minacciano il nostro Paese affinché anche noi ungheresi mandiamo armi e
soldati in Ucraina!
Tuttavia, la posizione del
governo è immutata e chiara: non vogliamo inviare armi e non vogliamo che i
giovani ungheresi prendano parte a questa guerra. Ci sono solo perdenti in
questa guerra, nessuno può vincere questa guerra.
L’Ungheria vuole restare fuori da
questa guerra! Invece di continuare la guerra, il governo ungherese chiede un
cessate il fuoco immediato e l’avvio di negoziati di pace in tutti i forum
internazionali!
E poi ho conosciuto anche Pëtr
Tolstoj, quando faceva il conduttore di uno dei programmi politici più seguiti,
Время покажет.
Ma non è di questo che volevo
parlarvi. Ecco finalmente quest’ultima intervista. La Russia è il Paese più
grande del mondo e dell’Europa. Un piccolo pezzetto d’Europa che si chiama
Unione Europea rispetto alla Russia è una cacatina di mosca sulla cartina
geografica. Dunque, ci spiace che oggi con i nostri vicini abbiamo simili
relazioni. La Russia però resta un grande Paese. Vedete, quando i francesi
chiedono dove si trovi la Jacuzia, io rispondo: sentite, come minimo non è
corretto, perché sul territorio della Jacuzia possiamo piazzare tre volte la
Francia. Gli jacuti, invece, non chiedono dove sia la Francia, sanno benissimo
che la Francia è là dove deve essere. Insomma, bisogna studiare di più la
geografia, questo aiuta molto a ragionare, per poi assumere decisioni
nell’economia o in politica.
Ho votato in ospedale, perché
queste elezioni sono anche importanti. E’ necessario eleggere i membri del
Parlamento europeo che sostengono le iniziative di pace e non la continuazione
della guerra.
Il consenso dei Paesi occidentali,
che hanno dato all’Ucraina la possibilità di usare armi occidentali per
attaccare obiettivi sul territorio russo, è solo la prova che un gran numero di
democrazie occidentali non vogliono la pace, ma aumentare le tensioni con la
Federazione Russa, che certamente si verificheranno.
In qualità di primo ministro
della Repubblica Slovacca, non trascinerò la Slovacchia in avventure militari
di questo tipo, e nell’ambito delle nostre piccole possibilità slovacche, farò
di tutto perché la pace abbia la precedenza sulla guerra.
Sembra di sentire Orbán, vero?
D’altronde, vengono accusati entrambi di essere quasi parafascisti in quanto
sovranisti e populisti. Ops, c’è un problema: Fico è socialdemocratico, come Scholz
e Borrell. Beh, ma basta non dirlo, giusto?
Zelenskij ha persino registrato
un videomessaggio a Joe Biden e Xi Jinping, pregandoli di partecipare
all’incontro in Svizzera.
Tuttavia, la comunità
internazionale non vuole più negoziare senza la Russia.
I leader dei Paesi BRICS sono
stati i primi ad esprimere il loro rifiuto a partecipare alla conferenza.
La Cina ha già risposto ai
rimproveri di Zelenskij per il rifiuto di partecipare al vertice. Pechino “non
ha mai soffiato sul fuoco e alimentato le fiamme della guerra russo-ucraina”,
ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri Cinese Mao Ning.
Il Presidente Sudafricano Cyril
Ramaphosa e il leader brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva hanno rifiutato di
partecipare al vertice. A loro hanno fatto seguito l’Arabia Saudita e il
Pakistan.
Il quotidiano indiano Hindustan
Times ha riferito che anche il Primo Ministro e il Ministro degli Esteri
Indiano ignoreranno l’incontro con Zelenskij.
Il Ministero degli Esteri
Australiano ha confermato che il Paese sarà rappresentato al vertice
sull’Ucraina in Svizzera non dal Primo Ministro, ma dal Ministro delle
Assicurazioni per la Disabilità.
Per la Casa Bianca è molto più
favorevole scaricare la responsabilità dell’esito del “Vertice di pace” sui
leader europei. A quanto pare, nei prossimi giorni molti di loro annunceranno
anche il loro rifiuto di partecipare a questo “spettacolo”, i cui costi hanno
già superato gli 11 milioni di dollari.
Ci sono anche molte altre
incongruenze. Per esempio, perché in Olanda si è già votato e si è votato solo giovedì
6 giugno, in Irlanda solo venerdì 7 giugno, nella Repubblica Ceca il 7 e l’8
giugno, in Lettonia, Slovacchia e Malta solo sabato 8 giugno, in Italia l’8 e
il 9 giugno, e in tutti gli altri Stati-membri solo domenica 9 giugno? Non
discuto, ma una regola dovrebbe essere una per tutti, no?
Perché in Belgio, Bulgaria,
Grecia e Lussemburgo il voto è obbligatorio e in tutti gli altri facoltativo?
Dovrebbe essere uguale per tutti, giusto?
Perché l’età minima per votare è
di 16 anni in Austria, Belgio, Germania e Malta, di 17 in Grecia e di 18 in
tutti gli altri? Da loro i giovani sedicenni sono più maturi?
Perché il voto postale e/o per
corrispondenza alle europee esiste in Austria, Belgio, Danimarca, Estonia,
Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda,
Slovenia, Spagna, Svezia ed Ungheria, cioè in 16 Stati su 27, e non esiste
invece in tutti gli altri, Italia compresa? Sì, lo so che a noi italiani
all’estero molti vorrebbero toglierci il voto anche alle politiche nazionali,
ed io ovviamente la ritengo una posizione fascistoide, ma non è questo il
punto: se quella Europea fosse davvero un’Unione, allora le regole dovrebbero
essere valide per tutti, non a discrezione.
E poi lo sbarramento, che a
seconda dello Stato varia dallo 0 al 5,9% (in Italia il 4%). Per me manco ci
dovrebbe essere, ma almeno stabilitene uno solo per tutti, no?
In secondo luogo, esiste una
banale legge della statistica, che se viene condotta da dilettanti allo
sbaraglio, io mangio un pollo e tu digiuni, per la statistica abbiamo mangiato
mezzo pollo a testa. Sono abbastanza anziano da ricordare il 93% alle politiche
italiane nel ’76, altro che percentuali bulgare. E alle europee del ’79 il 62%.
Le percentuali si sono ridotte da quando, vent’anni fa esatti, nel 2004, sono
entrati nell’UE tutti i Paesi dell’Europa orientale. Io negli anni ’80 e ’90,
con i miei conoscenti dell’Europa occidentale, andavo orgoglioso della maggiore
consapevolezza degli italiani. Ecco, ora siamo come tutti gli altri, veri
europei.
In questi mesi, ho sentito i sondaggi più disparati. Per qualcuno l’affluenza doveva essere inferiore alla metà, per altri addirittura quasi di tre quarti degli aventi diritto. Fatto sta, nel 2019 era del 51%, stavolta è del 49%. Il punto non è questo. Intanto, tra quanti si astenevano, prevaleva il disinteresse, o un senso di desolazione. Stavolta, tra gli astenuti prevaleva il non voto cosciente di protesta, e tra chi ha votato, a maggior ragione, prevale comunque la consapevolezza.
La realtà dei fatti, al di là del prevedibile balletto, tutto italiano, del “ho vinto io”, “no, ho vinto io”, a caldo, ci dice che hanno vinto i guerrafondai filonazisti, e hanno perso i pacifisti antifascisti. Non così all’estero: per lo più (Francia, Germania, Austria), ha vinto la destra più becera, che però è contro l’invio di armi e per le trattative di pace. Attenzione: lo era anche la Meloni, fintanto che è stata all’opposizione.
A margine, noto che, come sempre, uniti si vince e divisi si perde. Se DSP e Santoro si fossero presentati insieme, magari anche per litigare il giorno dopo, avrebbero superato lo sbarramento, forse, molto forse. Ecco perché mi torna alla mente il gattopardo: cambiare tutto per non cambiare niente.
In Germania, per i socialdemocratici di Scholz è stata una vera e propria débacle, hanno praticamente dimezzato i voti, il peggior risultato in un secolo. La destra rappresenta soprattutto la delusione degli Ossi, dopo 25 anni di “riunificazione”, in realtà “annessione della Repubblica Democratica Tedesca alla RFT. Sahra Wagenknecht ha il 5,7%, con la Linke sarebbero arrivati all’8,3%. Così, invece, la Linke non supera lo sbarramento.
In Francia, la sinistra di Melenchon non è andata malissimo, 10,1%, ma nessuno ne parla. Con i comunisti, sarebbero arrivati al 12%, e quindi anche i comunisti sarebbero entrati in Parlamento. Ma anche in Francia, tutti disuniti appassionatamente.
In Ungheria, il centrodestra di Orbán, peraltro già al potere, ha confermato il suo risultato. Perché? Perché è contro la guerra e per le trattative di pace. In Slovacchia, i due Partiti socialdemocratici, già al potere, hanno confermato il loro risultato, ma insieme avrebbero avuto la maggioranza assoluta. Comunque, guardacaso, sono per la pace e contro la guerra.
Amarcord
Si sente spesso parlare di file
nei Paesi socialisti. In Unione Sovietica, nella mia infanzia, non c’erano,
comparvero solo negli anni ‘80, quando gradualmente lo stato sociale cominciò a
degradare e sempre più prodotti iniziarono ad essere deficitari, anche se non
si trattava per forza di quelli di prima necessità, a meno che non si voglia
considerare tali un paio di jeans o un’audiocassetta. Il degrado portò poi alla
caduta dell’Unione Sovietica, ma questo sarebbe un discorso molto lungo.
Nel 1969, a Mosca, mia madre mi
chiese di scendere e comprare qualche braciola di maiale. Quello che mi faceva
impressione è vedere ogni ben di dio in quantità industriali, per esempio degli
enormi cubi di burro, da cui la commessa tagliava la quantità richiesta dall’acquirente
con una lenza. Mi avvicinai alla macelleria e, dall’alto dei miei sette anni di
età, chiesi con severità: la carne di maiale è fresca? Mi guardarono manco
fossi sceso da Marte, e la commessa balbettò: sì… Va beh, me ne dia tre etti.
Diceva mia madre che da allora le davano sempre la carne migliore, in quanto
madre di quel bimbo strano.
Come detto, le file iniziarono
negli anni ‘80, ma ero già maggiorenne. Nelle estati degli anni ‘70, in
macchina con mio padre, partivamo da Roma e visitavamo tutti i cosiddetti Paesi
del socialismo reale, anche perché in ciascuno mio padre aveva da salutare
qualche suo compagno di università di Mosca, con cui aveva studiato negli anni ‘50.
Mai visto una sola fila, non sapevo manco cosa fosse. Aggiungo che, più ci si
avvicinava al confine col sedicente mondo capitalista, più il tenore di vita
era di gran lunga superiore persino a Mosca, per non parlare dell’entroterra
russo. Mi riferisco a Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, e
soprattutto a Jugoslavia e Repubblica Democratica Tedesca. L’Unione Sovietica
aveva bisogno di mostrare, internamente ed esternamente, che col socialismo si
vive meglio che col capitalismo, e per qualche decennio fu davvero così.
Però torniamo al concetto del
fare la fila. In URSS se vedevi tre persone mettersi ordinatamente in fila, era
probabile che stessero per vendere qualcosa che si faticava a trovare, al punto
che prima ci si metteva in fila, e solo poi ci si informava cosa diavolo
stessero per vendere. Osservare trenta persone in fila, ordinati, agli
occidentali faceva impressione, e da qui il mito delle file di un Paese allo
stremo. Le stesse trenta persone, a Roma o a Milano, al check-in aeroportuale,
al botteghino del teatro, alle poste o in banca, assumevano il contorno di un
dromedario che cercava di penetrare nella cruna di un ago. Gli italiani la fila
proprio non la sanno fare, e se ne vantano. La situazione migliorò, ma non più
di tanto, quando inventarono i numeretti e le cinghie di delimitazione.
Nel 1989, feci probabilmente le
mie ferie più belle, in perfetta solitudine. Partii in auto da Montecatini,
dove lavoravo all’epoca. Non volevo essere legato ai traghetti, quindi Trieste,
in Jugoslavia la guerra non sapevano manco cosa fosse, Lubiana, Zagabria,
Belgrado, Sarajevo, Skopje, Salonicco, Atene e finalmente il mare. Ero
distrutto, avevo una Panda 30 a quattro marce con raffreddamento ad aria, che,
lanciata a piena velocità, raggiungeva la ragguardevole velocità di 105 km
orari, ma una settimana con la mia tenda piantata sulle coste marittime di un
villaggio di pescatori di cui non ricordo più manco il nome, sotto Volos, dove
non passava nessuna macchina, semplicemente perché lì la strada finiva, non c’era
nessun posto dove andare, praticamente la fine del mondo in tutti i sensi, ne
era valsa la pena.
Dopo una settimana, feci tutta
una tirata fino a Norimberga, ma con una sosta forzata a Slavonski Brod, un
posto che pochi anni dopo fu raso al suolo. Fui fermato dalla polstrada per
eccesso di velocità. Chiesi quant’era, mi dissero 10.000 dinari (il cambio con
la lira italiana era di uno a uno), più altri 5.000 perché non avevo la “I” di “Italia”
appiccicata sul retro. Notai che non ero targato “MI”, “TO”, “NA”, “FI”, Roma
la conoscono in tutto il mondo, ma va bene. Però quale limite di velocità? Mi
dissero che era di 120. Il mio errore fu quello di spiegare loro che capivo un
po’ di serbocroato, visto il mio russo, e gli proposi di mettersi alla guida:
se fossero riusciti a superare i 120, avrei pagato doppio, in caso contrario
dovevano lasciarmi andare gratis. Per tutta risposta, mi sferrarono un paio di
pugni in pieno volto, testimoni non ce n’erano, loro erano pure armati, si
presero i 15.000 dinari e senza ricevuta. Quando un mese dopo tornai in Italia,
feci denuncia all’ambasciata jugoslava a Roma, che dopo qualche mese mi inviò
una lettera di scuse in cui mi assicuravano che avevano preso provvedimenti nei
confronti dei due poliziotti. Chissà.
Norimberga, dicevamo. Lì mi
aspettavano una mia amica e collega padovana e suo marito, tedesco della RDT.
Dopo qualche giorno, ripartii alla volta di Berlino. Loro erano stupiti: guarda
che è lontano e un po’ fuori dal tuo percorso. Io però c’ero stato da bambino
con mio padre, quasi non me la ricordavo, e me lo sentivo che ‘sta storia del
muro non poteva durare ancora a lungo. Tre mesi dopo risultò che avevo ragione.
Arrivato a Berlino Ovest, trovai un alberghetto di settima categoria. Mi faceva
impressione la sporcizia per strada e vedere sfrecciare una marea di gipponi
con le luci al neon con targhe militari statunitensi, con i loro soldati
afroamericani in mimetica in cerca di qualche ragazza sprovveduta o
professionista del sesso a pagamento.
La mattina dopo, parcheggiai e
presi la metropolitana per recarmi a Berlino Est. Avevo acquistato una
piantina, dove sembrava molto piccola: riportava solo le fermate occidentali.
Mi colpì perché ogni tanto passavamo delle fermate senza fermarci, erano quelle
della RDT, e viceversa. Ovviamente, a Berlino Est comprai un’altra piantina,
stessa storia, come se “l’altra” non esistesse. Le più paradossali erano quelle
che non appartenevano a nessuna delle due Germanie, uno strato uniforme di
polvere spessa due dita sulle banchine e cartelloni pubblicitari scrostati di
quando la Germania era una sola, forse addirittura del periodo nazista.
Giunto al confine di Stato,
sempre in metropolitana, mi venne rilasciato immediatamente il visto
giornaliero, era la pratica comune. Avevo il passaporto italiano, però nella
foto avevo il barbone e i capelli lunghi, ed era pieno di visti di Paesi
sospetti ed inquietanti, quelli appunto dei Paesi socialisti. In più, il mio
luogo di nascita: Praga, Cecoslovacchia. Vedrai quanto mi romperanno le
scatole, mi dissi. Invece, i poliziotti occidentali non batterono ciglio.
Percorsi a piedi una decina di metri e mi presentai ai poliziotti orientali.
Loro però mi romperanno le scatole, pensai. Invece, pure loro, come se niente
fosse. Ero quasi deluso.
Dopo quanto visto a Berlino
Ovest, quello Est mi sembrò un gioiellino: niente cartacce per strada, niente
militari, né sovietici né, ovviamente, americani, una città che viveva in un’altra
epoca. Mi sedetti ad un tavolino di marmo con sedie in vimini, tipo caffè
austriaco, ed ordinai una birra, all’aria aperta. Dagli altoparlanti suonava
musica classica. Poi decisi di entrare in un supermercato, giusto per
curiosità. C’era ogni ben di dio, in abbondanza, e notai che molti prodotti
erano gli stessi che nell’infanzia vedevo a Mosca. L’interscambio tra Paesi
socialisti funzionava eccome.
Gironzolai ancora un po’, si
stava facendo tardi, decisi di ritornare a Berlino Ovest. Adesso però i
poliziotti dell’Est dovranno pur rompermi le scatole, no? Niente da fare, tutto
come la mattina. Va beh, ormai è fatta, i poliziotti occidentali li passo
tranquillo. Sorpresa! Mi hanno tenuto tre ore, sequestrandomi il passaporto. Io
da giovane ero piuttosto avventato, dissi al poliziotto che ero un cittadino
della Comunità Europea (l’Unione Europea ancora non esisteva) e che lui era un
nazista, cosa che ai tedeschi pare non piaccia molto. Dopo tre ore, venne il
suo capo col mio passaporto in mano. Lo sguardo diceva molto: se solo avesse
trovato qualcosa a cui appigliarsi, non me l’avrebbe fatta passare liscia. Non
ho trovato nulla, ma levati di torno, mi disse in un inglese addirittura più
stentato del mio. Uscito dal metrò, una boccata di aria fresca. Recuperai il
mio pandino e mi sbrigai a ripercorrere quella striscia di autostrada sotto
sorveglianza armata ad ogni cavalcavia che collegava Berlino Ovest al resto
della RFT.
Mica finisce qui. Da lì feci tutta
una tirata fino a Parigi, dove però non mi fermai perché la conoscevo già molto
bene e proseguii per i Paesi Baschi. C’era una mia amica del posto ad
aspettarmi, conosciuta un anno prima ai corsi di inglese a Londra. Chissà come
abbiamo fatto, visto che i cellulari non erano stati ancora inventati. Non
ricordo, fatto sta che ci incontrammo in una piazza di Bilbao, assieme a suo
fratello. Analogamente al “giro delle ombre” a Venezia, mi fece fare il giro di
tutte le birrerie della città, in ciascuna dovevamo limitarci a bere un “surito”,
un “sagutxoa” in lingua locale. Conoscendo il francese, intuii che fosse un “topolino”.
Che roba è? Un bicchierino come quelli da vodka, ma con la birra locale, che è
un po’ come la Peroni, quasi acqua fresca. La guardai con aria di sufficienza,
abituato alla vodka. Niente di più sbagliato: provate voi a berne un mezzo
centinaio. Non so come, verso le tre di notte, guidai fino al loro villaggio.
Fatto sta che quella notte mi vomitai l’anima. La mattina dopo, il padre della mia
amica mi chiese se a Bilbao non ci fossimo imbattuti in qualche problema. No,
risposi, perché? Beh, c’era una manifestazione, bottiglie molotov, cariche,
arresti, ma è un fenomeno quasi quotidiano. Visto nulla.
Dopo una settimana, feci tutta
una tirata fino a Montecatini via Costa Azzurra. In tutto questo infinito
viaggio di 6.000 km, era divertente notare come man mano cambiava la lingua
nell’autoradio sulle onde FM, ma questo c’era anche in un film dell’epoca, ho
solo avuto una conferma. Sono passati 35 anni, eppure sono dei ricordi
indelebili.
Musica
Mosca, Sebastopoli, Rostov sul
Don, Kaluga, Nižnij Novgorod, Soči, Alma Ata in Kazachstan, Saratov, Caterimburgo,
Crimea, Udmurtia, Odessa, Čeljabinsk, Krasnodar, Smolensk.
La canzone si chiama Эх,
путь-дорожка фронтовая, parla della strada per Berlino, sempre più attuale, pur
essendo del 1945.
Per questa settimana è tutto. A risentirci e rivederci, sempre su Visione TV!
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Che poi prima ancora hanno eliminato sindacalisti bruciandoli vivi in puro stile mussoliniano squadrista contro le Case del Popolo
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