Mark Bernardini

Mark Bernardini

martedì 15 luglio 2025

Il Maestro e Margherita, a volte ritornano

Lo dico subito: la mia vuole essere una stroncatura senza compromessi. Mi riferisco all’ennesima rappresentazione cinematografica dilettantesca e politicamente motivata del “Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov.

Intanto, una lunghissima e doverosa premessa. Personalmente, sono molto legato a questa opera immensa, pubblicata postuma e in parte incompiuta. Nel 1977, per me quindicenne e giovane comunista italiano, una sera a Mosca mia madre tirò fuori da dietro un armadio una copia dattiloscritta del romanzo. Sono i famosi “samizdat”, quando le persone, non disponendo di fotocopiatrici, si passavano queste risme di fogli e le ribattevano per moltiplicarle. Già qui, volessi compiacere l’antisovietismo di allora e di oggi, dovrei dire: vedete? Bulgakov era proibito. E’ una menzogna. Bulgakov impiegò dodici anni a scrivere questo romanzo, e rimase incompiuto proprio perché morì nel 1940. E’ un punto importante: nel 1941 i nazisti invasero l’Unione Sovietica, il romanzo rimase nel dimenticatoio perché c’era ben altro da fare. Fu pubblicato nel 1966. Solo che era introvabile, visto il successo.

Lo lessi tutto d’un fiato, in quella notte, terminai all’alba, non potevo distogliermene, e alla fine la sensazione era di rimpianto che questa fiaba fosse finita e che dovevo tornare alla realtà. Complessivamente, negli anni, l’ho letto 23 volte, posso citarne brani interi a memoria, e non certo perché fosse il mio scopo. A quel punto, presi a leggere tutto quel che Bulgakov aveva scritto, dagli “Appunti sui polsini”, di quando faceva il medico condotto nell’entroterra russo prerivoluzionario, e fino alla Diavoleide (era una sua idea fissa, come vedremo poi), alle “Uova fatali”, palesemente sotto l’impressione per aver letto la “Guerra dei mondi” di Herbert George Wells, che la scrisse nel 1897, a “Cuore di cane”, noto anche in Italia, alle “Avventure di Čičikov”, a “Morfina” (come medico, gli capitò una brutta dipendenza), alla “Guardia bianca” e al “Romanzo teatrale”. Ecco, appunto: Bulgakov era uomo di teatro, scrisse molte pièce teatrali, la più famosa fu quella dei “Giorni dei Turbin”, che altro non è se non la trasposizione del romanzo “Guardia bianca”. Ho letto anche molte sue opere minori, ho letto tutto. Bulgakov mi accompagna da quasi mezzo secolo, in tutta la mia vita cosciente.

Con tutto questo, per il profondo rispetto che nutro per questo autore, non mi sono mai permesso di adire a tradurre il “Maestro e Margherita”. E sì che sono assolutamente bimadrelingua dalla nascita e faccio il mestiere di traduttore ed interprete di simultanea dal 1979. Faccio solo un esempio. Durante lo spettacolo di magia nera al Varietà di Mosca, Fagot pronuncia una frase: «Уй, мадам! Натурально, вы не понимаете». A tradurla letteralmente, sarebbe: “Oh, madame! Ovviamente, lei non capisce”. Nulla di più sbagliato. Quell’uh al posto dell’oh, e soprattutto “naturalmente” al posto dell’ovviamente denotano la tipica prosopopea degli ignoranti dell’epoca, che per il loro complesso di inferiorità vogliono parlare forbito, tipico dei “lumpenproletariat” (il proletariato cencioso). Intraducibile, si può solo spiegare.

Di Bulgakov, ho anche scritto in prima persona, nel 1991 feci in tempo a pubblicare un mio essai nell’ultimo numero della rivista culturale Rassegna Sovietica, dell’associazione Italia-URSS, prima della chiusura ingloriosa di quest’ultima e conseguentemente della rivista, dal titolo Bulgakov da un’enciclopedia all’altra.

Fin qui, parliamo di traduzioni. Ora però parliamo dei numerosi tentativi di trasporre il “Maestro e Margherita” nel cinema e nel teatro. A metà anni ’80, mi portarono a vedere a teatro una rappresentazione a Roma di una troupe torinese. Fui costretto ad abbandonare: ogni cinque minuti, esclamavo “ma non era così!”, ed il pubblico scandalizzato mi zittiva. Capisco la difficoltà di mostrare Margherita nuda volare su una scopa sopra Mosca, ma si rasentava la pornografia. Non c’era però alcun motivo di inserire un terzo personaggio inesistente nel dialogo tra il Maestro e il poeta Bezdomnyj al manicomio, che li interrompeva in continuazione, un matto che si credeva Ferdinando di Spagna. In realtà, il motivo c’era eccome, come vedremo in seguito: troppi registi intenti a dimostrare di essere più geniali del genio dell’autore. Siamo di nuovo al complesso d’inferiorità, con la solfa che quella è la sua visione.

Non sono nemmeno un cultore del film italo-jugoslavo di Petrović, nonostante il bravissimo Ugo Tognazzi. Proprio per questo, nel 2005 ero molto prevenuto nei confronti del telefilm in dieci puntate di Bortko, per un totale di circa nove ore. Cambiai radicalmente idea dopo la sua visione: un capolavoro, tuttora insuperato. E’ sufficiente affidarsi a Bulgakov, senza volerlo superare.

Veniamo ora al film del 2024, che è il motivo di questa mia recensione. E’ vero: il regista Michail Lokšin è figlio di due comunisti americani costretti a riparare in Unione Sovietica. E’ anche vero però che lui, cittadino USA, ha fatto il percorso inverso ed ha condannato l’operazione militare speciale russa in Ucraina. Questo spiega molte cose. Il film è pervaso dall’anticomunismo ed antisovietismo più abietto, odioso, selvaggio, stupido e perciò inefficace, pur se piacevole per i propagandisti hollywoodiani. Hai voglia a dire che questa è la sua visione. Tale visione è diversa, talvolta opposta a quella di Bulgakov.

Che bisogno c’era di intitolare gli “Stagni del Patriarca” di Mosca a Karl Marx, se Bulgakov non si è sognato di farlo? Perché il Maestro e il diavolo, che per inciso nel romanzo si incontrano per la prima volta solo verso la fine, mentre per Lokšin è un continuo fin dall’inizio, si parlano in tedesco, visto che il Maestro parlava solo in russo? Forse per rendere la vita più facile all’attore che interpreta Woland, August Diehl, che è appunto tedesco? Tra l’altro, è un quarantenne castano tenorile, mentre per Bulgakov Woland è bruno, in età e con voce da basso.

E non finisce qui. Ješua Ga Nocri e il quinto procuratore della Giudea Ponzio Pilato si parlano in aramaico, mentre per Lokšin parlano in latino con un orribile accento yankee, al punto che si fatica a decifrare le singole parole della lingua dell’antica Roma.

Lasciamo stare le questioni linguistiche. L’eccessiva identificazione tra l’autore e il Maestro, che in Bulgakov per modestia è appena accennata, nel film è il leitmotiv. Ben altri i motivi per cui il Maestro finisce in manicomio, nessuna critica politica del suo romanzo, ma che addirittura venga curato con l’elettroshock è proprio un’invenzione estremamente rozza. E perché poi inventarsi di sana pianta il personaggio del marito di Margherita, che nel libro è appena menzionato?

Potrei andare avanti per ore facendo a pezzi questa pellicola improponibile, ma penso che sia già sufficiente. Dopo aver letto il libro (possibilmente in originale), e solo dopo ciò, consiglio la visione del film, perché per criticarlo bisogna sapere cosa si critica. A me resta la sensazione sgradevole della supponenza e della superficialità tipicamente statunitensi.

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