Mark Bernardini

Mark Bernardini

martedì 13 febbraio 2024

Traduzioni e doppiaggi

Recentemente, ho tradotto l’intervista di Tucker Carlson con Vladimir Putin. Non avendo nulla da contestare nel merito, i soliti sfaccendati leoni da tastiera si sono concentrati sul sottoscritto: e chissà se la traduzione era fedele, e il sonoro non corrispondeva all’immagine, e la voce di entrambi era sempre la stessa, e via sproloquiando.

Bene mettetevi comodi, perché non sarò breve. Una volta per tutte, voglio chiarire alcuni concetti che a me appaiono scontati, ma che evidentemente per i più non lo sono. A partire da questo mio comunicato, in futuro rimanderò a quest’ultimo.

Il primo concetto da chiarire è cosa sia una traduzione. Devo dire, vista la mia età, che preferisco le fonti cartacee, e nella fattispecie vi leggo come la definisca il Grande Dizionario Enciclopedico UTET del 1972 in diciannove volumi.

Dal latino traducĕre, trasportare. E’ la trasposizione del discorso da una lingua naturale a un’altra. Si dice interprete chi fa la traduzione orale e istantanea di un messaggio orale; traduttore è chi opera sulla lingua scritta.

La distinzione tradizionale fra traduzione letterale e traduzione libera, secondo alcuni corrispondente in parte alla differenza tra versione e traduzione propriamente detta, riproduce l’antitesi ciceroniana del tradurre ut interpres o ut orator opponendo le trasposizioni fedeli, anche a costo di apparire rozze, alle cosiddette “belle infedeli”, vicine alla parafrasi e al libero adattamento. Nelle sue migliori prove la moderna traduzione, avvalendosi delle molteplici e talora contraddittorie esperienze del passato, è il risultato della perfetta comprensione di contenuto ed espressione del messaggio di cui si cerca di riprodurre integralmente non solo il significato, ma anche i tratti formali caratterizzanti: la traduzione ideale è quella capace di ricreare nella nuova lingua la stessa trama di opposizioni e di relazioni dei valori semantici, sintattici, ritmici, ecc., della lingua originale.

Diverse dalle traduzioni, benché talvolta designate impropriamente come tali, sono le seguenti operazioni traspositive: le trascrizioni, o notazioni, compiute dal dialettologo che dà forma scritta a un idioma parlato, le translitterazioni (o trans ili ab azioni quando si passa da una scrittura alfabetica a una sillabica), che consistono nel ricevere un testo in simboli stenografici o in alfabeto Morse o in caratteri Braille o in simboli crittografici.

Se solo recentemente si è posto il problema di una teoria scientifica della traduzione, antichissima è l’attività dell’interprete, fiorente già nell’antico Egitto, e testimonianze di traduzioni sono le liste e i glossari bilingui e plurilingui in tavolette di terracotta dell’Asia Minore. A Roma la letteratura si inizia all’insegna della traduzione (Livio Andronico), e Cicerone formula il problema teorico fondamentale: se si debba rimanere fedeli alla lettera del testo o al pensiero in esso contenuto. Grande incremento ha avuto nei secoli la traduzione delle Sacre Scritture, a cominciare dalla versione dei Settanta (secolo III a. C.) e dalla Vulgata di S. Girolamo fino alle numerosissime traduzioni nelle varie lingue nazionali dal secolo XVI (Bibbia di Lutero) ai giorni nostri, in cui si calcola che la Bibbia sia tradotta in poco meno di 1200 lingue. In Europa la diffusione del cristianesimo è legata alla traduzione dei testi sacri: operarono in Inghilterra il Venerabile Beda (secolo VIII), re Alfredo (secolo X) e Alfric (secolo XI), in Irlanda i monaci traduttori di Bangor, nel convento di S. Gallo in Svizzera Notker il Balbo, nei Paesi slavi Cirillo e Metodio. Traduzioni e adattamenti di testi latini troviamo fra i primi documenti dei volgari romanzi, in cui per tutto il Medioevo i volgarizzamenti (liberi rifacimenti di opere antiche e medievali) rappresentano una parte non trascurabile dell’attività letteraria. In Spagna, al punto di incontro delle civiltà ebraica, araba e cristiana, fin dal secolo XII fiorì la prima scuola di traduttori, a Toledo. Benché nel Medioevo non siano mancate in Italia (Dante) e in Francia (Nicole Oresme) riflessioni sul problema della traduzione, questo è impostato e discusso sistematicamente solo nel Rinascimento, da trattatisti e scrittori di varie nazionalità, che abbandonano la pratica medievale sia dell’arbitrario rimaneggiamento sia della versio legata alla lettera del testo (e applicata per ragioni di ortodossia teologica ai libri sacri) per stabilire norme di “ben tradurre” accettabili ancor oggi. Classificata fra i generi letterari, la traduzione è soggetta, nei secoli seguenti, alle teorizzazioni e alle tendenze che di volta in volta dominano la prassi scrittoria, fino al nostro secolo, ove i motivi di disaccordo appaiono acutizzati dalla maggiore consapevolezza teorica e dall’affinamento dei mezzi tecnici.

Una teoria della traduzione, quale oggi si impone per l’incremento degli studi e per le necessità pratiche del comunicare, deve fondarsi su una teoria linguistica generale, in quanto l’operazione del tradurre coinvolge tutti i livelli di attuazione del messaggio linguistico; particolarmente interessate sono la semantica, la stilistica e la teoria della comunicazione. Le varie specie di traduzione (religiosa, letteraria, poetica, teatrale, cinematografica, diplomatica, commerciale, tecnico-scientifica) propongono ciascuna problemi diversi, connessi con la natura specifica del “genere” a cui i singoli tipi appartengono e con le discipline da cui questi dipendono. Sono noti, per esempio, gli ostacoli spesso insormontabili che incontra il traduttore nel rendere certe peculiarità del linguaggio poetico, particolarmente quelle legate agli aspetti fonici o ritmici, o le preoccupazioni di fedeltà alla lettera e allo spirito dei testi religiosi e la difficoltà di renderne accessibile la simbologia a destinatari di cultura diversa, a cui certi simboli possono apparire incomprensibili o privi di significato. La traduzione richiede infatti non solo competenza linguistica, in senso tecnico e teorico, ma sicuro possesso delle discipline a cui si riferiscono i contenuti da tradurre, e soprattutto dell’ambiente socioculturale, delle condizioni storiche, etniche e antropologiche in genere, in cui l’opera è maturata. E’ questo un aspetto di capitale importanza per l’esatta trasmissione di un messaggio in tutte le sue implicazioni, specie quando le due lingue siano lontane nel tempo o appartengano a comunità di parlanti di civiltà radicalmente diverse.

Sono state anche sperimentate per la prima volta (a New York nel 1954, poi a Londra e a Mosca nel 1955) delle macchine per tradurre (le MT): calcolatori elettronici funzionanti come dizionari automatici. I risultati finora sono stati poco incoraggianti: per funzionare, una MT dovrebbe disporre di algoritmi di traduzione, derivanti da un’analisi adeguata di tutti i livelli della struttura grammaticale (semantico, fonematico e sintattico), ma una tale descrizione è ancor lungi dall’essere attuata, specialmente al livello dell’organizzazione sintattica.

E veniamo ora alla Treccani online, di cui purtroppo negli anni mi fido sempre meno, ma che nel caso in questione non differisce granché da quanto ho narrato sin qui in versione cartacea UTET. Eppure, adesso capirete perché cito anch’essa, proprio per le differenze.

L’azione, l’operazione e l’attività di volgere da una lingua a un’altra un testo scritto od orale.

Traduzione letterale e traduzione a senso.

La traduzione si presenta come un caso speciale di un’attività più vasta, che consiste nel trasferimento di senso da una forma in un’altra e nella riformulazione di un messaggio. La traduzione si rende necessaria per superare un ostacolo alla comprensione. Tale ostacolo può essere costituito da una lingua sconosciuta, ma anche da parole sconosciute della propria lingua, da uno stile complesso o arcaico o involuto, da un codice ignoto. Affinché la comunicazione si stabilisca, serve allora che qualcuno o qualcosa riproduca il messaggio in modo tale che possa essere compreso dal destinatario.

Il linguista e semiologo Roman Jakobson è autore di un’ormai classica tripartizione: la traduzione fra due lingue verbali umane (interlingual translation), o traduzione propriamente detta; la traduzione che avviene all’interno della medesima lingua (intralingual translation), o riformulazione; la traduzione intersemiotica (intersemiotic translation), detta anche trasmutazione, che ha luogo fra codici semiotici differenti, di cui almeno uno non verbale (per esempio, nella trasposizione cinematografica, pittorica, musicale di un testo letterario). Per secoli la specificità della traduzione interlinguistica è stata individuata nel trasferimento del significato dall’involucro di una lingua in quello di un’altra, senza nulla togliere e nulla aggiungere: sarebbe questa la traduzione fedele. L’aspirazione a un ancoraggio fermo ha indotto inoltre ad attribuire un valore di sicurezza alla traduzione detta letterale, cui l’unità di misura della parola conferirebbe un valore oggettivo. L’opposizione traduzione letterale/traduzione a senso è dicotomia ricorrente nella storia del pensiero relativamente alla traduzione; a questo proposito, già S. Girolamo, nell’Epistola LVII ad Pammachium composta alla fine del IV secolo, rigettava il metodo della traduzione parola per parola, fonte di goffaggini, astrusità e controsensi, preferendo un metodo di traduzione fondato sul senso. Alla corrispondenza parola per parola, talvolta addirittura morfema per morfema, come capita di rilevare in molti volgarizzamenti medievali, si contrapposero metodi di traduzione, prediletti in certe epoche e in certe culture, come quella neoclassica francese, che lasciavano o richiedevano al traduttore una grande libertà. Nasce proprio nella Francia del XVIII secolo il mito delle “belle infedeli”: la fedeltà al testo di partenza diventa sinonimo di ineleganza, contorsione, goffaggine, rozzezza e denota in chi la persegue una debolezza d’arte e d’ingegno. Gli idealisti e i romantici tedeschi del secolo seguente, intrisi di un profondo senso della storia e delle peculiarità distintive di ogni singolo prodotto dell’arte e della scienza, condannarono però le belle infedeli come anacronistici travestimenti di ciò che è irrimediabilmente altro da noi. L’opinione corrente secondo cui bisognerebbe tradurre come se fosse l’autore dell’originale medesimo a scrivere direttamente nella lingua del traduttore viene respinta come vuota e inconsistente. Nessuno, infatti, può sapere che cosa una persona avrebbe scritto, se fosse nata e cresciuta nell’epoca, nella cultura e con la lingua del traduttore, e ancor meno come l’avrebbe scritto. Così la vera essenza e il valore positivo della traduzione sono individuati nell’esperienza della distanza che separa il traduttore e il lettore dal testo originale. Le traduzioni ispirate ai principi romantici si rivelarono però spesso di non facile lettura, al punto che la critica ai risultati finì con il coinvolgere le idee da cui muovevano.

Teorie della traduzione

L’antica funzione rassicurante di ancoraggio che si suole attribuire alla traduzione letterale si scorge anche dietro i primi tentativi di traduzione automatica condotti negli Stati Uniti a partire dagli anni 1950. Il presupposto teorico è ancora una particolare visione del linguaggio umano, secondo cui sarebbe possibile separare perfettamente il significato dall’elemento sensibile che lo veicola, dal segno in cui s’incarna (parola, frase, testo) e rivestirlo di una diversa forma senza pregiudizio alcuno della sua integrità. Sarebbe allora possibile procedere, schematicamente, nel modo seguente: box→‘scatola’→scatola e viceversa, dove ‘scatola’ è la rappresentazione concettuale che funge da cerniera fra i due segni linguistici.

Gli studi avviati in Europa già a partire dal XIX secolo sui rapporti fra lingua, pensiero e realtà, ma soprattutto la semiotica, la linguistica, la filosofia del linguaggio, la teoria della letteratura e, successivamente, la teoria della traduzione hanno progressivamente minato questa antica concezione del tradurre sia sul versante teorico sia su quello della descrizione fenomenica. La linguistica e la semiotica strutturali hanno affermato che il significato di ogni segno linguistico è determinato dalla funzione che esso svolge all’interno del sistema, vale a dire che ogni segno, da un lato, è delimitato dall’insieme degli altri segni compresenti nel codice che l’utente adopera, dall’altro è definito dall’insieme dei suoi usi possibili. Pertanto, poiché il segno box riceve il suo autentico valore dalla rete dei rapporti che intesse con tutti gli altri segni del codice lingua inglese, sia sul piano del sistema sia sul piano dei suoi usi concreti, ne discende che il segno scatola non può né in teoria né di fatto avere lo stesso valore. Di qui si può anche giungere alla conclusione che la traduzione sia impossibile (e alcuni lo hanno sostenuto). E in effetti così è, se con traduzione s’intende una riproduzione dei medesimi valori presenti nei segni che compongono l’originale. Si è però obiettato, opportunamente, che se dal piano dei confronti fra sistemi linguistici si passa al piano del confronto fra messaggi emessi da un locutore a un destinatario in un contesto situazionale e comunicativo determinato, le variabili si riducono sensibilmente e la traduzione diviene praticabile. Nei messaggi concreti, infatti, non tutto lo spettro del significato di un segno viene attivato. Occorre riconoscere, però, che anche sul piano dell’atto locutorio concreto possono presentarsi, soprattutto in determinati generi testuali, quelli che lasciano margini maggiori all’interpretazione o all’evocatività (come, per esempio, i testi letterari, in particolare poetici, o quelli filosofici, religiosi, giuridici, politici), ostacoli difficilmente sormontabili.

Le teorie della traduzione sviluppate alla fine del Novecento insistono sul ruolo decisivo del traduttore come interprete. Con gli strumenti culturali e linguistici a sua disposizione egli stabilisce una gerarchia di valori presenti nel testo di partenza, che funge da guida nella scelta del metodo più appropriato per la traduzione e delle soluzioni ai problemi che via via si pongono. Sulla base della sua comprensione e della sua interpretazione e con riferimento agli scopi comunicativi che persegue, il traduttore procede attraverso singole scelte che comportano perdite, acquisti e alterazioni più o meno consistenti rispetto a quanto si può isolare nell’originale. Questo è ciò che avviene normalmente, anzi inevitabilmente.

La dimostrazione dell’impossibilità di non alterare il testo traducendolo è fornita dai casi estremi della traduzione automatica o dell’autotraduzione. Riguardo alla prima, nata negli USA per la traduzione di testi scientifici in cui il fattore strettamente informativo prevale sull’aspetto stilistico, bisogna considerare che gli impedimenti, più ancora che legati allo sviluppo tecnico, sono di natura teorica. Costruire una macchina capace di tradurre a un livello accettabile presuppone innanzitutto una teoria del linguaggio e della traduzione interamente formalizzabili, di cui non si dispone: significherebbe, di fatto, approntare un sistema in grado di capire il linguaggio usato nel contesto e di generarlo autonomamente. E infatti, nonostante siano stati fatti tentativi interessanti, privilegiando, volta a volta, l’aspetto lessicale, l’aspetto morfologico (isolando le radici o la base lessicale e fornendo una serie di istruzioni atte a ricostruire le parole nel contesto), l’aspetto grammaticale per la costruzione di frasi a partire da istruzioni di partenza eccetera, i problemi che rimangono da risolvere sono ancora quelli legati al valore semantico degli insiemi costruiti sintatticamente. Le tendenze recenti della traduzione automatica pertanto si indirizzano verso soluzioni interattive, ossia verso interventi “meccanici” con successivi riaggiustamenti umani. L’autotraduzione costituisce un fenomeno marginale, ma interessante per il contributo che porta alla riflessione sui problemi generali della traduzione. L’autore che traduce un proprio testo in una lingua diversa da quella in cui era stato concepito originariamente sembrerebbe offrire la migliore garanzia di affidabilità. In realtà, ammessa l’ottima conoscenza di entrambe le lingue, l’autore di un testo si trova in una condizione non dissimile da quella del traduttore comune. Data la natura del tradurre, infatti, dovrà comunque scegliere un’interpretazione possibile di quanto aveva originariamente scritto, visto che la lingua e la cultura d’arrivo non consentono di riprodurre un testo esattamente conforme, anche perché non sono conformi le coordinate di ricezione da parte del pubblico, inserito in un sistema di riferimenti in qualche modo comunque dissimile da quello del pubblico cui era destinato il testo di partenza.

Dall’osservazione che le traduzioni circolanti in un determinato contesto linguistico-culturale ben raramente rispondono alle esigenze delle definizioni tradizionali di traduzione, generalmente fondate su criteri normativi e su nozioni oggi ampiamente ridiscusse, come quella di equivalenza, si sono sviluppati, negli ultimi decenni del XX secolo, nuovi orientamenti negli studi sulla traduzione, che hanno sottolineato l’importanza degli aspetti socioculturali (a lungo trascurati a favore di quelli puramente linguistici) e del contesto in cui la traduzione è eseguita, accolta e inserita (talora ignorati a favore di un interesse incentrato solo sul contesto da cui è scaturito l’originale). In conclusione, più che una definizione chiusa, prescrittiva e atemporale, il fenomeno del tradurre sembra richiedere un trattamento più aperto, sottoposto a un fascio di condizioni più o meno cogenti a seconda delle richieste che dai gruppi culturali e sociali di una determinata collettività storica vengono rivolte ai traduttori dei diversi generi testuali.

Qui finisce la Treccani. Insomma, che vi piaccia più lo sguardo profondo della UTET di mezzo secolo fa, o quello pressappochista incentrato sugli Stati Uniti della Treccani moderna, un’idea comunque ve la sarete fatta. E comunque è ciò di cui mi occupo dal 1979, cioè da 45 anni.

Resta un concetto che nella UTET di allora non si poteva ancora trovare. Mi riferisco al doppiaggio, ossia a quel che mi viene imputato come scarsamente professionale, anziché alla traduzione, che invece mi viene universalmente riconosciuta come eccelsa. Beh, ma infatti non mi sono mai piccato di essere un doppiatore. Ecco di nuovo la Treccani.

Il doppiaggio è un’operazione con cui un film viene dotato di un sonoro diverso da quello originale, per eliminare difetti tecnici o di recitazione, o trasferire il parlato in una lingua diversa.

L’avvento del sonoro colse impreparate le strutture del cinema italiano, che non era in grado di far parlare i suoi film. Nell’aprile del 1929 uscì in Italia The jazz singer di Crosland e in quello stesso anno il governo fascista decretò che le pellicole straniere non potevano circolare in lingua originale. I film stranieri erano quindi distribuiti con le musiche e i rumori della colonna sonora originale, ma privi dei dialoghi che venivano tradotti in lunghe didascalie. Ciò causò una disaffezione da parte del pubblico mettendo a rischio l’occupazione per migliaia di lavoratori del settore cinematografico. Data l’importanza del mercato italiano per l’industria cinematografica statunitense, Metro Goldwyn Mayer, Fox e Warner Bros realizzarono versioni plurime nei loro stabilimenti di Hollywood, utilizzando attori oriundi che parlavano l’italiano con forti inflessioni americane. Ma i produttori, non soddisfatti dei risultati, pensarono di sperimentare il doppiaggio, il cui “prototipo” fu un sistema inventato dal fisico austriaco Karol, detto dubbing, che consisteva nel sostituire la colonna sonora relativa al parlato con un’altra dove i dialoghi tradotti erano recitati in una lingua diversa dall’originale.

Nel 1932 entrò in funzione il primo stabilimento di doppiaggio italiano presso la società Cines-Pittaluga cui seguirono la Fotovox e la ItalaAcustica nel 1933, anno in cui lo stabilimento di doppiaggio Fono Roma fu attrezzato con l’apposito strumentario tecnico. Nel 1934 il governo fascista vietò la circolazione dei film doppiati all’estero e le grandi case di produzione statunitensi dovettero affidarsi agli stabilimenti romani, che videro crescere il loro lavoro in maniera considerevole. Nella seconda metà degli anni 1930 il doppiaggio italiano cominciò ad assumere precise caratteristiche tecniche, artistiche ed espressive e si delinearono i requisiti del doppiatore: la duttilità e l’espressività della voce, la dizione tornita, le doti recitative capaci di adeguarsi ai modelli timbrici della voce originale, la particolarità dei toni, la capacità di interpretare tempi e modalità cinematografici e di controllare le inflessioni e i ritmi. Queste qualità hanno reso celebre la scuola di doppiaggio italiana, che nel tempo ha visto impegnati attori prestigiosi, sia di teatro (Paolo Stoppa, Giorgio Albertazzi, Gino Cervi, Arnoldo Foà, Enrico Maria Salerno) sia di cinema (Alberto Sordi, Giancarlo Giannini), o doppiatori specializzati, Nando Gazzolo (David Niven), Oreste Lionello (Woody Allen).

Inizialmente i doppiatori, costantemente nell’ombra, non condividevano il successo degli attori celebri cui prestavano la voce e non venivano mai alla ribalta. Solo nel 1937 alcune riviste di cinema cominciarono a parlare del doppiatore e dei suoi maggiori esponenti e nello stesso periodo si affermò la pratica di doppiare anche alcuni attori italiani. Una certa diffidenza dei produttori rispetto alle voci di alcuni attori e attrici italiani, considerate troppo ruvide o sgradevoli nei loro timbri e toni, si manifestò anche in seguito, e, soprattutto agli inizi, furono doppiati nomi illustri del cinema italiano come Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Lucia Bosé, Claudia Cardinale, Ornella Muti, Stefania Sandrelli, Raf Vallone, Renato Salvatori, Maurizio Arena, Franco Nero, Giuliano Gemma, e perfino Anna Magnani. Nel secondo dopoguerra era invalso d’altronde l’uso di scegliere gli attori per l’aspetto fisico, senza tenere conto della loro dizione; persino uno dei capolavori-manifesto del Neorealismo, Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, utilizzò il doppiaggio: un bambino aveva la voce di Ferruccio Amendola.

Già negli anni 1940, però, gli intellettuali si schierarono contro il doppiaggio dei film stranieri, proponendo in alternativa i sottotitoli. Ma il referendum proposto da Michelangelo Antonioni, che per il suo film d’esordio Cronaca di un amore (1950) fece doppiare Lucia Bosé e un altro personaggio da Alberto Sordi, evidenziò che lo spettatore italiano era ormai abituato alle straordinarie voci dei doppiatori e apprezzava la tecnica del doppiaggio. Nel 1944 fu fondata la prima e più importante cooperativa di doppiaggio, la CDC (Cooperativa Doppiatori Cinematografici), che comprendeva circa 150 iscritti divisi in varie categorie (direttori di doppiaggio, protagonisti, comprimari, caratteristi, generici), e nel 1945 era nata la ODI (Organizzazione Doppiatori Italiani), che raggruppava attori teatrali decisi a svincolare la pratica del doppiaggio dalla corrispondenza rigida del rapporto fra la voce e il volto, o che si sentivano schiacciati dalla presenza dei doppiatori storici. Si affermarono così quelle voci che ebbero un ruolo fondamentale nella diffusione del cinema, soprattutto statunitense, degli anni 1940 e 1950, e che contribuirono a creare un feeling esclusivo fra gli spettatori italiani e i divi dell’epoca; accanto a queste si moltiplicarono le voci prestate, negli anni 1960 e 1970, ad attori francesi, inglesi, tedeschi: i già citati Gino Cervi e Alberto Sordi (le cui esperienze radiofoniche lo avevano reso adatto alla carriera di doppiatore ancor prima di divenire attore), per arrivare a Ferruccio Amendola, forse l’esempio più indicativo della duttilità e della modernità nell’ambito delle voci del doppiatore italiano, per la sua grande capacità di scardinare la rigidità della tecnica tradizionale prestando inflessioni e cadenze ad attori innovativi come Dustin Hoffmann, Robert De Niro, Al Pacino.

All’inizio degli anni 1950, le due maggiori organizzazioni si separarono e sorsero nuove società, tra cui la Sinc nel 1967 e la CVD (Cine-Video Doppiatori) nel 1970, alle quali si aggiunsero il Gruppo Trenta e altre società che proliferarono dai primi anni 1980 in seguito al boom di telenovelas, serie televisive e soap opera. L’avvento delle televisioni private favorì l’incremento delle società di doppiaggio che da una decina divennero un centinaio; parallelamente i doppiatori, che alla fine degli anni 1950 erano circa 300, sono passati nel nuovo millennio a oltre 1500. Si sono moltiplicate anche le organizzazioni di postsincronizzazione, mentre i tempi di lavorazione sono calati, a scapito della qualità, a partire dalla seconda metà degli anni 1970, quando telefilm, telenovelas e film per la televisione hanno costretto i doppiatori a ritmi frenetici. Il doppiaggio è entrato così in una nuova era: la concorrenza esasperata ha costretto infatti le società ad attingere al libero mercato delle voci, risparmiando sui tempi e sui costi e stimolando molti doppiatori a lavorare free lance. Nel 1978 è nata la CDL (Cooperativa Doppiatori Liberi), trasformatasi nel 1983 in ente morale con il nome di ADL (Attori Doppiatori Liberi).

Il procedimento che consente di vedere/ascoltare un film straniero in un’altra lingua è lungo e complesso. Prima di arrivare al doppiaggio vero e proprio bisogna adattare l’opera originale. Nella prima fase si procede a comparare la copia lavoro con la “colonna internazionale”, in modo che l’integrazione preservi rumori riproducibili in sala e adattabili all’immagine sullo schermo, per esempio il cigolio di una porta (effetti sala), effetti sonori di repertorio (effetti speciali) e rumori di fondo e atmosfere sonore legate all’ambiente in cui si svolge l’azione (effetti ambiente). La copia del film serve inoltre al dialoghista-adattatore che appronterà una versione tradotta in italiano per l’utilizzo nel doppiaggio. L’operazione consiste nella trasposizione e nell’elaborazione in lingua italiana dei dialoghi originali in modo che il labiale e il visivo siano adattati in perfetto sincronismo.

Il filmato viene suddiviso in segmenti costituenti unità separate su cui effettuare il doppiaggio, i cosiddetti anelli contrassegnati da un codice numerico. Si procede a incidere le voci su una o più piste sonore, oppure su piste e colonne audio separate. Nella sala di doppiaggio ci sono due spazi attigui insonorizzati divisi tra loro da un grande vetro. In un ambiente lavora il regista con il direttore di doppiaggio e il fonico e nell’altro si dispongono gli attori-doppiatori con l’assistente al doppiaggio, che controlla sia il sincronismo labiale sia il coordinamento del lavoro, mentre gli attori-doppiatori, di fronte al leggio con il copione italiano, seguendo sullo schermo il filmato, che passa più volte ad anello, e ascoltando in cuffia il sonoro originale, procedono a provare ripetutamente le battute mettendole in sincrono con le immagini e con il movimento labiale degli attori, fin quando non si è pronti a incidere. A questo punto interviene il sincronizzatore che ha il compito di far coincidere le voci italiane registrate con il movimento labiale originale, e che, con l’ausilio di una strumentazione elettronico-digitale, può accorciare o allungare le pause e effettuare accorgimenti per spostare frasi o interi pezzi di dialoghi rispetto al visivo. Nella fase del missaggio si miscelano le colonne doppiate con la colonna internazionale e con le musiche, e infine si aggiungono i titoli in italiano, cioè quelli inerenti all’edizione che verrà distribuita. In oltre 50 anni tale procedimento è stato reso più agile ed efficace dalle sofisticate innovazioni tecnologiche.


Ora capite perché io mi inalberi tanto quando mi dicono che il mio doppiaggio non corrisponde al parlato? Il mio non è un doppiaggio, è una traduzione! Inoltre, come potete intuire, nel doppiaggio la fa da padrone il labiale, anche a scapito della precisione della traduzione. Io faccio l’interprete e il traduttore. Se dovessi dirvi […] tutti voi capite dove io vi stia mandando, vero? E cambia poco se vi ci mando in russo […]

Come che sia, d’ora in avanti seguite quel che dico, non il come lo dico. O per meglio dire, quel che dice Putin, Lavrov, Šojgu, Nebenzja e le altre figure pubbliche che traduco per voi.

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