Recentemente, ho tradotto l’intervista di Tucker Carlson con Vladimir Putin. Non avendo nulla da contestare nel merito, i soliti sfaccendati leoni da tastiera si sono concentrati sul sottoscritto: e chissà se la traduzione era fedele, e il sonoro non corrispondeva all’immagine, e la voce di entrambi era sempre la stessa, e via sproloquiando.
Bene mettetevi comodi, perché non
sarò breve. Una volta per tutte, voglio chiarire alcuni concetti che a me
appaiono scontati, ma che evidentemente per i più non lo sono. A partire da questo
mio comunicato, in futuro rimanderò a quest’ultimo.
Il primo concetto da chiarire è
cosa sia una traduzione. Devo dire, vista la mia età, che preferisco le fonti
cartacee, e nella fattispecie vi leggo come la definisca il Grande Dizionario
Enciclopedico UTET del 1972 in diciannove volumi.
Dal latino traducĕre, trasportare. E’ la
trasposizione del discorso da una lingua naturale a un’altra. Si dice
interprete chi fa la traduzione orale e istantanea di un messaggio orale;
traduttore è chi opera sulla lingua scritta.
La distinzione tradizionale fra traduzione
letterale e traduzione libera, secondo alcuni corrispondente in parte alla differenza
tra versione e traduzione
propriamente detta, riproduce l’antitesi ciceroniana del tradurre ut interpres o ut orator opponendo le trasposizioni fedeli, anche a costo di
apparire rozze, alle cosiddette “belle infedeli”, vicine alla parafrasi e al
libero adattamento. Nelle sue migliori prove la moderna traduzione, avvalendosi
delle molteplici e talora contraddittorie esperienze del passato, è il
risultato della perfetta comprensione di contenuto ed espressione del messaggio
di cui si cerca di riprodurre integralmente non solo il significato, ma anche i
tratti formali caratterizzanti: la traduzione ideale è quella capace di
ricreare nella nuova lingua la stessa trama di opposizioni e di relazioni dei
valori semantici, sintattici, ritmici, ecc., della lingua originale.
Diverse dalle traduzioni, benché
talvolta designate impropriamente come tali, sono le seguenti operazioni traspositive:
le trascrizioni, o notazioni,
compiute dal dialettologo che dà forma scritta a un idioma parlato, le translitterazioni (o trans ili ab azioni quando si passa da
una scrittura alfabetica a una sillabica), che consistono nel ricevere un testo
in simboli stenografici o in alfabeto Morse o in caratteri Braille o in simboli
crittografici.
Se solo recentemente si è posto
il problema di una teoria scientifica della traduzione, antichissima è
l’attività dell’interprete, fiorente già nell’antico Egitto, e testimonianze di
traduzioni sono le liste e i glossari bilingui e plurilingui in tavolette di
terracotta dell’Asia Minore. A Roma la letteratura si inizia all’insegna della traduzione
(Livio Andronico), e Cicerone formula il problema teorico fondamentale: se si
debba rimanere fedeli alla lettera del testo o al pensiero in esso contenuto.
Grande incremento ha avuto nei secoli la traduzione delle Sacre Scritture, a
cominciare dalla versione dei Settanta
(secolo III a. C.) e dalla Vulgata di
S. Girolamo fino alle numerosissime traduzioni nelle varie lingue nazionali dal
secolo XVI (Bibbia di Lutero) ai giorni nostri, in cui si calcola che la Bibbia
sia tradotta in poco meno di 1200 lingue. In Europa la diffusione del cristianesimo
è legata alla traduzione dei testi sacri: operarono in Inghilterra il
Venerabile Beda (secolo VIII), re Alfredo (secolo X) e Alfric (secolo XI), in
Irlanda i monaci traduttori di Bangor, nel convento di S. Gallo in Svizzera
Notker il Balbo, nei Paesi slavi Cirillo e Metodio. Traduzioni e adattamenti di
testi latini troviamo fra i primi documenti dei volgari romanzi, in cui per
tutto il Medioevo i volgarizzamenti
(liberi rifacimenti di opere antiche e medievali) rappresentano una parte non
trascurabile dell’attività letteraria. In Spagna, al punto di incontro delle
civiltà ebraica, araba e cristiana, fin dal secolo XII fiorì la prima scuola di
traduttori, a Toledo. Benché nel Medioevo non siano mancate in Italia (Dante) e
in Francia (Nicole Oresme) riflessioni sul problema della traduzione, questo è
impostato e discusso sistematicamente solo nel Rinascimento, da trattatisti e scrittori
di varie nazionalità, che abbandonano la pratica medievale sia dell’arbitrario
rimaneggiamento sia della versio
legata alla lettera del testo (e applicata per ragioni di ortodossia teologica
ai libri sacri) per stabilire norme di “ben tradurre” accettabili ancor oggi.
Classificata fra i generi letterari, la traduzione è soggetta, nei secoli
seguenti, alle teorizzazioni e alle tendenze che di volta in volta dominano la
prassi scrittoria, fino al nostro secolo, ove i motivi di disaccordo appaiono
acutizzati dalla maggiore consapevolezza teorica e dall’affinamento dei mezzi
tecnici.
Una teoria della traduzione,
quale oggi si impone per l’incremento degli studi e per le necessità pratiche
del comunicare, deve fondarsi su una teoria linguistica generale, in quanto
l’operazione del tradurre coinvolge tutti i livelli di attuazione del messaggio
linguistico; particolarmente interessate sono la semantica, la stilistica e la
teoria della comunicazione. Le varie specie di traduzione (religiosa,
letteraria, poetica, teatrale, cinematografica, diplomatica, commerciale,
tecnico-scientifica) propongono ciascuna problemi diversi, connessi con la
natura specifica del “genere” a cui i singoli tipi appartengono e con le
discipline da cui questi dipendono. Sono noti, per esempio, gli ostacoli spesso
insormontabili che incontra il traduttore nel rendere certe peculiarità del
linguaggio poetico, particolarmente quelle legate agli aspetti fonici o
ritmici, o le preoccupazioni di fedeltà alla lettera e allo spirito dei testi
religiosi e la difficoltà di renderne accessibile la simbologia a destinatari
di cultura diversa, a cui certi simboli possono apparire incomprensibili o
privi di significato. La traduzione richiede infatti non solo competenza
linguistica, in senso tecnico e teorico, ma sicuro possesso delle discipline a
cui si riferiscono i contenuti da tradurre, e soprattutto dell’ambiente
socioculturale, delle condizioni storiche, etniche e antropologiche in genere,
in cui l’opera è maturata. E’ questo un aspetto di capitale importanza per l’esatta
trasmissione di un messaggio in tutte le sue implicazioni, specie quando le due
lingue siano lontane nel tempo o appartengano a comunità di parlanti di civiltà
radicalmente diverse.
Sono state anche sperimentate per
la prima volta (a New York nel 1954, poi a Londra e a Mosca nel 1955) delle
macchine per tradurre (le MT): calcolatori elettronici funzionanti come
dizionari automatici. I risultati finora sono stati poco incoraggianti: per
funzionare, una MT dovrebbe disporre di algoritmi di traduzione, derivanti da
un’analisi adeguata di tutti i livelli della struttura grammaticale (semantico,
fonematico e sintattico), ma una tale descrizione è ancor lungi dall’essere attuata,
specialmente al livello dell’organizzazione sintattica.
E veniamo ora alla Treccani
online, di cui purtroppo negli anni mi fido sempre meno, ma che nel caso in
questione non differisce granché da quanto ho narrato sin qui in versione
cartacea UTET. Eppure, adesso capirete perché cito anch’essa, proprio per le
differenze.
L’azione, l’operazione e
l’attività di volgere da una lingua a un’altra un testo scritto od orale.
Traduzione letterale e traduzione
a senso.
La traduzione si presenta come un
caso speciale di un’attività più vasta, che consiste nel trasferimento di senso
da una forma in un’altra e nella riformulazione di un messaggio. La traduzione
si rende necessaria per superare un ostacolo alla comprensione. Tale ostacolo
può essere costituito da una lingua sconosciuta, ma anche da parole sconosciute
della propria lingua, da uno stile complesso o arcaico o involuto, da un codice
ignoto. Affinché la comunicazione si stabilisca, serve allora che qualcuno o
qualcosa riproduca il messaggio in modo tale che possa essere compreso dal
destinatario.
Il linguista e semiologo Roman
Jakobson è autore di un’ormai classica tripartizione: la traduzione fra due
lingue verbali umane (interlingual translation), o traduzione propriamente
detta; la traduzione che avviene all’interno della medesima lingua
(intralingual translation), o riformulazione; la traduzione intersemiotica
(intersemiotic translation), detta anche trasmutazione, che ha luogo fra codici
semiotici differenti, di cui almeno uno non verbale (per esempio, nella trasposizione
cinematografica, pittorica, musicale di un testo letterario). Per secoli la
specificità della traduzione interlinguistica è stata individuata nel
trasferimento del significato dall’involucro di una lingua in quello di
un’altra, senza nulla togliere e nulla aggiungere: sarebbe questa la traduzione
fedele. L’aspirazione a un ancoraggio fermo ha indotto inoltre ad attribuire un
valore di sicurezza alla traduzione detta letterale, cui l’unità di misura
della parola conferirebbe un valore oggettivo. L’opposizione traduzione letterale/traduzione
a senso è dicotomia ricorrente nella storia del pensiero relativamente alla traduzione;
a questo proposito, già S. Girolamo, nell’Epistola
LVII ad Pammachium composta alla fine del IV secolo, rigettava il metodo
della traduzione parola per parola, fonte di goffaggini, astrusità e
controsensi, preferendo un metodo di traduzione fondato sul senso. Alla
corrispondenza parola per parola, talvolta addirittura morfema per morfema,
come capita di rilevare in molti volgarizzamenti medievali, si contrapposero
metodi di traduzione, prediletti in certe epoche e in certe culture, come
quella neoclassica francese, che lasciavano o richiedevano al traduttore una
grande libertà. Nasce proprio nella Francia del XVIII secolo il mito delle “belle
infedeli”: la fedeltà al testo di partenza diventa sinonimo di ineleganza,
contorsione, goffaggine, rozzezza e denota in chi la persegue una debolezza
d’arte e d’ingegno. Gli idealisti e i romantici tedeschi del secolo seguente,
intrisi di un profondo senso della storia e delle peculiarità distintive di
ogni singolo prodotto dell’arte e della scienza, condannarono però le belle
infedeli come anacronistici travestimenti di ciò che è irrimediabilmente altro
da noi. L’opinione corrente secondo cui bisognerebbe tradurre come se fosse
l’autore dell’originale medesimo a scrivere direttamente nella lingua del
traduttore viene respinta come vuota e inconsistente. Nessuno, infatti, può
sapere che cosa una persona avrebbe scritto, se fosse nata e cresciuta
nell’epoca, nella cultura e con la lingua del traduttore, e ancor meno come
l’avrebbe scritto. Così la vera essenza e il valore positivo della traduzione
sono individuati nell’esperienza della distanza che separa il traduttore e il
lettore dal testo originale. Le traduzioni ispirate ai principi romantici si
rivelarono però spesso di non facile lettura, al punto che la critica ai
risultati finì con il coinvolgere le idee da cui muovevano.
Teorie della traduzione
L’antica funzione rassicurante di
ancoraggio che si suole attribuire alla traduzione letterale si scorge anche
dietro i primi tentativi di traduzione automatica condotti negli Stati Uniti a
partire dagli anni 1950. Il presupposto teorico è ancora una particolare
visione del linguaggio umano, secondo cui sarebbe possibile separare
perfettamente il significato dall’elemento sensibile che lo veicola, dal segno
in cui s’incarna (parola, frase, testo) e rivestirlo di una diversa forma senza
pregiudizio alcuno della sua integrità. Sarebbe allora possibile procedere,
schematicamente, nel modo seguente: box→‘scatola’→scatola e viceversa, dove
‘scatola’ è la rappresentazione concettuale che funge da cerniera fra i due
segni linguistici.
Gli studi avviati in Europa già a
partire dal XIX secolo sui rapporti fra lingua, pensiero e realtà, ma
soprattutto la semiotica, la linguistica, la filosofia del linguaggio, la teoria
della letteratura e, successivamente, la teoria della traduzione hanno
progressivamente minato questa antica concezione del tradurre sia sul versante
teorico sia su quello della descrizione fenomenica. La linguistica e la
semiotica strutturali hanno affermato che il significato di ogni segno
linguistico è determinato dalla funzione che esso svolge all’interno del
sistema, vale a dire che ogni segno, da un lato, è delimitato dall’insieme
degli altri segni compresenti nel codice che l’utente adopera, dall’altro è
definito dall’insieme dei suoi usi possibili. Pertanto, poiché il segno box
riceve il suo autentico valore dalla rete dei rapporti che intesse con tutti
gli altri segni del codice lingua inglese, sia sul piano del sistema sia sul
piano dei suoi usi concreti, ne discende che il segno scatola non può né in
teoria né di fatto avere lo stesso valore. Di qui si può anche giungere alla
conclusione che la traduzione sia impossibile (e alcuni lo hanno sostenuto). E
in effetti così è, se con traduzione s’intende una riproduzione dei medesimi
valori presenti nei segni che compongono l’originale. Si è però obiettato,
opportunamente, che se dal piano dei confronti fra sistemi linguistici si passa
al piano del confronto fra messaggi emessi da un locutore a un destinatario in
un contesto situazionale e comunicativo determinato, le variabili si riducono
sensibilmente e la traduzione diviene praticabile. Nei messaggi concreti,
infatti, non tutto lo spettro del significato di un segno viene attivato.
Occorre riconoscere, però, che anche sul piano dell’atto locutorio concreto
possono presentarsi, soprattutto in determinati generi testuali, quelli che
lasciano margini maggiori all’interpretazione o all’evocatività (come, per esempio,
i testi letterari, in particolare poetici, o quelli filosofici, religiosi,
giuridici, politici), ostacoli difficilmente sormontabili.
Le teorie della traduzione
sviluppate alla fine del Novecento insistono sul ruolo decisivo del traduttore
come interprete. Con gli strumenti culturali e linguistici a sua disposizione
egli stabilisce una gerarchia di valori presenti nel testo di partenza, che
funge da guida nella scelta del metodo più appropriato per la traduzione e
delle soluzioni ai problemi che via via si pongono. Sulla base della sua
comprensione e della sua interpretazione e con riferimento agli scopi
comunicativi che persegue, il traduttore procede attraverso singole scelte che
comportano perdite, acquisti e alterazioni più o meno consistenti rispetto a
quanto si può isolare nell’originale. Questo è ciò che avviene normalmente,
anzi inevitabilmente.
La dimostrazione
dell’impossibilità di non alterare il testo traducendolo è fornita dai casi
estremi della traduzione automatica o dell’autotraduzione. Riguardo alla prima,
nata negli USA per la traduzione di testi scientifici in cui il fattore
strettamente informativo prevale sull’aspetto stilistico, bisogna considerare
che gli impedimenti, più ancora che legati allo sviluppo tecnico, sono di
natura teorica. Costruire una macchina capace di tradurre a un livello
accettabile presuppone innanzitutto una teoria del linguaggio e della traduzione
interamente formalizzabili, di cui non si dispone: significherebbe, di fatto,
approntare un sistema in grado di capire il linguaggio usato nel contesto e di
generarlo autonomamente. E infatti, nonostante siano stati fatti tentativi
interessanti, privilegiando, volta a volta, l’aspetto lessicale, l’aspetto
morfologico (isolando le radici o la base lessicale e fornendo una serie di
istruzioni atte a ricostruire le parole nel contesto), l’aspetto grammaticale
per la costruzione di frasi a partire da istruzioni di partenza eccetera, i
problemi che rimangono da risolvere sono ancora quelli legati al valore
semantico degli insiemi costruiti sintatticamente. Le tendenze recenti della traduzione
automatica pertanto si indirizzano verso soluzioni interattive, ossia verso
interventi “meccanici” con successivi riaggiustamenti umani. L’autotraduzione
costituisce un fenomeno marginale, ma interessante per il contributo che porta
alla riflessione sui problemi generali della traduzione. L’autore che traduce
un proprio testo in una lingua diversa da quella in cui era stato concepito
originariamente sembrerebbe offrire la migliore garanzia di affidabilità. In
realtà, ammessa l’ottima conoscenza di entrambe le lingue, l’autore di un testo
si trova in una condizione non dissimile da quella del traduttore comune. Data
la natura del tradurre, infatti, dovrà comunque scegliere un’interpretazione
possibile di quanto aveva originariamente scritto, visto che la lingua e la
cultura d’arrivo non consentono di riprodurre un testo esattamente conforme,
anche perché non sono conformi le coordinate di ricezione da parte del
pubblico, inserito in un sistema di riferimenti in qualche modo comunque
dissimile da quello del pubblico cui era destinato il testo di partenza.
Dall’osservazione che le traduzioni
circolanti in un determinato contesto linguistico-culturale ben raramente
rispondono alle esigenze delle definizioni tradizionali di traduzione,
generalmente fondate su criteri normativi e su nozioni oggi ampiamente
ridiscusse, come quella di equivalenza, si sono sviluppati, negli ultimi
decenni del XX secolo, nuovi orientamenti negli studi sulla traduzione, che
hanno sottolineato l’importanza degli aspetti socioculturali (a lungo
trascurati a favore di quelli puramente linguistici) e del contesto in cui la traduzione
è eseguita, accolta e inserita (talora ignorati a favore di un interesse
incentrato solo sul contesto da cui è scaturito l’originale). In conclusione,
più che una definizione chiusa, prescrittiva e atemporale, il fenomeno del
tradurre sembra richiedere un trattamento più aperto, sottoposto a un fascio di
condizioni più o meno cogenti a seconda delle richieste che dai gruppi
culturali e sociali di una determinata collettività storica vengono rivolte ai
traduttori dei diversi generi testuali.
Qui finisce la Treccani. Insomma,
che vi piaccia più lo sguardo profondo della UTET di mezzo secolo fa, o quello
pressappochista incentrato sugli Stati Uniti della Treccani moderna, un’idea
comunque ve la sarete fatta. E comunque è ciò di cui mi occupo dal 1979, cioè
da 45 anni.
Resta un concetto che nella UTET
di allora non si poteva ancora trovare. Mi riferisco al doppiaggio, ossia a
quel che mi viene imputato come scarsamente professionale, anziché alla
traduzione, che invece mi viene universalmente riconosciuta come eccelsa. Beh,
ma infatti non mi sono mai piccato di essere un doppiatore. Ecco di nuovo la
Treccani.
Il doppiaggio è un’operazione con
cui un film viene dotato di un sonoro diverso da quello originale, per
eliminare difetti tecnici o di recitazione, o trasferire il parlato in una
lingua diversa.
L’avvento del sonoro colse
impreparate le strutture del cinema italiano, che non era in grado di far
parlare i suoi film. Nell’aprile del 1929 uscì in Italia The jazz singer di Crosland
e in quello stesso anno il governo fascista decretò che le pellicole straniere
non potevano circolare in lingua originale. I film stranieri erano quindi
distribuiti con le musiche e i rumori della colonna sonora originale, ma privi
dei dialoghi che venivano tradotti in lunghe didascalie. Ciò causò una
disaffezione da parte del pubblico mettendo a rischio l’occupazione per
migliaia di lavoratori del settore cinematografico. Data l’importanza del
mercato italiano per l’industria cinematografica statunitense, Metro Goldwyn
Mayer, Fox e Warner Bros realizzarono versioni plurime nei loro stabilimenti di
Hollywood, utilizzando attori oriundi che parlavano l’italiano con forti
inflessioni americane. Ma i produttori, non soddisfatti dei risultati,
pensarono di sperimentare il doppiaggio, il cui “prototipo” fu un sistema
inventato dal fisico austriaco Karol, detto dubbing, che consisteva nel
sostituire la colonna sonora relativa al parlato con un’altra dove i dialoghi
tradotti erano recitati in una lingua diversa dall’originale.
Nel 1932 entrò in funzione il
primo stabilimento di doppiaggio italiano presso la società Cines-Pittaluga cui
seguirono la Fotovox e la ItalaAcustica nel 1933, anno in cui lo stabilimento
di doppiaggio Fono Roma fu attrezzato con l’apposito strumentario tecnico. Nel
1934 il governo fascista vietò la circolazione dei film doppiati all’estero e
le grandi case di produzione statunitensi dovettero affidarsi agli stabilimenti
romani, che videro crescere il loro lavoro in maniera considerevole. Nella
seconda metà degli anni 1930 il doppiaggio italiano cominciò ad assumere
precise caratteristiche tecniche, artistiche ed espressive e si delinearono i
requisiti del doppiatore: la duttilità e l’espressività della voce, la dizione
tornita, le doti recitative capaci di adeguarsi ai modelli timbrici della voce
originale, la particolarità dei toni, la capacità di interpretare tempi e
modalità cinematografici e di controllare le inflessioni e i ritmi. Queste
qualità hanno reso celebre la scuola di doppiaggio italiana, che nel tempo ha
visto impegnati attori prestigiosi, sia di teatro (Paolo Stoppa, Giorgio
Albertazzi, Gino Cervi, Arnoldo Foà, Enrico Maria Salerno) sia di cinema (Alberto
Sordi, Giancarlo Giannini), o doppiatori specializzati, Nando Gazzolo (David
Niven), Oreste Lionello (Woody Allen).
Inizialmente i doppiatori, costantemente
nell’ombra, non condividevano il successo degli attori celebri cui prestavano
la voce e non venivano mai alla ribalta. Solo nel 1937 alcune riviste di cinema
cominciarono a parlare del doppiatore e dei suoi maggiori esponenti e nello
stesso periodo si affermò la pratica di doppiare anche alcuni attori italiani. Una
certa diffidenza dei produttori rispetto alle voci di alcuni attori e attrici
italiani, considerate troppo ruvide o sgradevoli nei loro timbri e toni, si
manifestò anche in seguito, e, soprattutto agli inizi, furono doppiati nomi
illustri del cinema italiano come Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano,
Lucia Bosé, Claudia Cardinale, Ornella Muti, Stefania Sandrelli, Raf Vallone, Renato
Salvatori, Maurizio Arena, Franco Nero, Giuliano Gemma, e perfino Anna Magnani.
Nel secondo dopoguerra era invalso d’altronde l’uso di scegliere gli attori per
l’aspetto fisico, senza tenere conto della loro dizione; persino uno dei
capolavori-manifesto del Neorealismo, Roma città aperta (1945) di Roberto
Rossellini, utilizzò il doppiaggio: un bambino aveva la voce di Ferruccio
Amendola.
Già negli anni 1940, però, gli
intellettuali si schierarono contro il doppiaggio dei film stranieri,
proponendo in alternativa i sottotitoli. Ma il referendum proposto da Michelangelo
Antonioni, che per il suo film d’esordio Cronaca di un amore (1950) fece
doppiare Lucia Bosé e un altro personaggio da Alberto Sordi, evidenziò che lo
spettatore italiano era ormai abituato alle straordinarie voci dei doppiatori e
apprezzava la tecnica del doppiaggio. Nel 1944 fu fondata la prima e più
importante cooperativa di doppiaggio, la CDC (Cooperativa Doppiatori
Cinematografici), che comprendeva circa 150 iscritti divisi in varie categorie
(direttori di doppiaggio, protagonisti, comprimari, caratteristi, generici), e
nel 1945 era nata la ODI (Organizzazione Doppiatori Italiani), che raggruppava
attori teatrali decisi a svincolare la pratica del doppiaggio dalla
corrispondenza rigida del rapporto fra la voce e il volto, o che si sentivano
schiacciati dalla presenza dei doppiatori storici. Si affermarono così quelle
voci che ebbero un ruolo fondamentale nella diffusione del cinema, soprattutto
statunitense, degli anni 1940 e 1950, e che contribuirono a creare un feeling
esclusivo fra gli spettatori italiani e i divi dell’epoca; accanto a queste si
moltiplicarono le voci prestate, negli anni 1960 e 1970, ad attori francesi,
inglesi, tedeschi: i già citati Gino Cervi e Alberto Sordi (le cui esperienze
radiofoniche lo avevano reso adatto alla carriera di doppiatore ancor prima di
divenire attore), per arrivare a Ferruccio Amendola, forse l’esempio più
indicativo della duttilità e della modernità nell’ambito delle voci del doppiatore
italiano, per la sua grande capacità di scardinare la rigidità della tecnica
tradizionale prestando inflessioni e cadenze ad attori innovativi come Dustin
Hoffmann, Robert De Niro, Al Pacino.
All’inizio degli anni 1950, le
due maggiori organizzazioni si separarono e sorsero nuove società, tra cui la
Sinc nel 1967 e la CVD (Cine-Video Doppiatori) nel 1970, alle quali si
aggiunsero il Gruppo Trenta e altre società che proliferarono dai primi anni
1980 in seguito al boom di telenovelas, serie televisive e soap opera.
L’avvento delle televisioni private favorì l’incremento delle società di doppiaggio
che da una decina divennero un centinaio; parallelamente i doppiatori, che alla
fine degli anni 1950 erano circa 300, sono passati nel nuovo millennio a oltre
1500. Si sono moltiplicate anche le organizzazioni di postsincronizzazione,
mentre i tempi di lavorazione sono calati, a scapito della qualità, a partire
dalla seconda metà degli anni 1970, quando telefilm, telenovelas e film per la
televisione hanno costretto i doppiatori a ritmi frenetici. Il doppiaggio è
entrato così in una nuova era: la concorrenza esasperata ha costretto infatti
le società ad attingere al libero mercato delle voci, risparmiando sui tempi e
sui costi e stimolando molti doppiatori a lavorare free lance. Nel 1978 è nata
la CDL (Cooperativa Doppiatori Liberi), trasformatasi nel 1983 in ente morale
con il nome di ADL (Attori Doppiatori Liberi).
Il procedimento che consente di
vedere/ascoltare un film straniero in un’altra lingua è lungo e complesso.
Prima di arrivare al doppiaggio vero e proprio bisogna adattare l’opera
originale. Nella prima fase si procede a comparare la copia lavoro con la “colonna
internazionale”, in modo che l’integrazione preservi rumori riproducibili in
sala e adattabili all’immagine sullo schermo, per esempio il cigolio di una
porta (effetti sala), effetti sonori di repertorio (effetti speciali) e rumori
di fondo e atmosfere sonore legate all’ambiente in cui si svolge l’azione
(effetti ambiente). La copia del film serve inoltre al dialoghista-adattatore
che appronterà una versione tradotta in italiano per l’utilizzo nel doppiaggio.
L’operazione consiste nella trasposizione e nell’elaborazione in lingua
italiana dei dialoghi originali in modo che il labiale e il visivo siano
adattati in perfetto sincronismo.
Il filmato viene suddiviso in
segmenti costituenti unità separate su cui effettuare il doppiaggio, i
cosiddetti anelli contrassegnati da un codice numerico. Si procede a incidere
le voci su una o più piste sonore, oppure su piste e colonne audio separate.
Nella sala di doppiaggio ci sono due spazi attigui insonorizzati divisi tra
loro da un grande vetro. In un ambiente lavora il regista con il direttore di doppiaggio
e il fonico e nell’altro si dispongono gli attori-doppiatori con l’assistente
al doppiaggio, che controlla sia il sincronismo labiale sia il coordinamento
del lavoro, mentre gli attori-doppiatori, di fronte al leggio con il copione
italiano, seguendo sullo schermo il filmato, che passa più volte ad anello, e
ascoltando in cuffia il sonoro originale, procedono a provare ripetutamente le
battute mettendole in sincrono con le immagini e con il movimento labiale degli
attori, fin quando non si è pronti a incidere. A questo punto interviene il
sincronizzatore che ha il compito di far coincidere le voci italiane registrate
con il movimento labiale originale, e che, con l’ausilio di una strumentazione
elettronico-digitale, può accorciare o allungare le pause e effettuare
accorgimenti per spostare frasi o interi pezzi di dialoghi rispetto al visivo.
Nella fase del missaggio si miscelano le colonne doppiate con la colonna
internazionale e con le musiche, e infine si aggiungono i titoli in italiano,
cioè quelli inerenti all’edizione che verrà distribuita. In oltre 50 anni tale
procedimento è stato reso più agile ed efficace dalle sofisticate innovazioni
tecnologiche.
Ora capite perché io mi inalberi tanto quando mi dicono che il mio doppiaggio non corrisponde al parlato? Il mio non è un doppiaggio, è una traduzione! Inoltre, come potete intuire, nel doppiaggio la fa da padrone il labiale, anche a scapito della precisione della traduzione. Io faccio l’interprete e il traduttore. Se dovessi dirvi […] tutti voi capite dove io vi stia mandando, vero? E cambia poco se vi ci mando in russo […]
Come che sia, d’ora in avanti
seguite quel che dico, non il come lo dico. O per meglio dire, quel che dice
Putin, Lavrov, Šojgu, Nebenzja e le altre figure pubbliche che traduco per voi.
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