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mercoledì 17 ottobre 2007
lunedì 8 ottobre 2007
giovedì 9 agosto 2007
E’ così che si diventa vecchi
Nel 1997, per un invito casuale, iniziai a cantare, alla "veneranda" età di 35 anni (per il canto operistico è davvero un'età inusuale). Come corista, verdiano, mi sono esibito nel Requiem nel Duomo di Milano, nel "Nabucco" a Spira in Germania, e poi ancora nel "Nabucco" e nella "Forza del destino" a Busseto ed a Siena. Nel 2002, dopo un periodo nel coro delle Comunità Europee a Bruxelles, mi sono trasferito (o meglio, sono tornato) a Mosca. Come è ovvio, non volevo perdere l'esperienza accumulata in quel quinquennio, soprattutto perché a quest'età è evidente che non si può contare su una carriera duratura. Chiesi a parenti vari se conoscevano qualcuno che potesse darmi lezioni e mi dissero di conoscere un basso del Bol'šoj in pensione. Mi presentai quindi di fronte a questo omone, omen nomen, che con la sua voce cavernicola mi spiegò il suo metodo, convinto che fosse tipico della "scuola italiana". Non che non avesse ragione, ma, purtroppo, parliamo di una scuola scomparsa da svariati decenni, almeno in Patria, sul suolo italico.
Non era questo, però, che mi aveva stupito: il fatto è che io non ricordo mai i nomi delle persone, ma ricordo per tutta la vita i volti, sono molto fisionomista. Infatti, ero assolutamente certo che, chissà quando, chissà dove, ma io questo metro e ottanta per centoventi chili l'avevo già conosciuto, e quando ebbi il sospetto, lo interruppi:
– Stanislav Bogdanovič, mi perdoni, l'80% della musica operistica mondiale è italiana; per caso, Lei è mai stato in Italia?
– Certo, ci mancherebbe! Svariate volte!
– Per caso, anche nel 1981?
– Beh, sì, quella fu la prima volta…
– Sempre per caso, con l'Associazione culturale URSS–Italia?
– Sì, ricordo, Viktor Voroncov, Lev Kapalet…
Con Lev Kapalet mi legava un rapporto particolare. Ricordo ancora quando, dopo l'asilo Montessori di Roma, un anno di asilo ad Ul'janovsk e due anni di scuola a Mosca, forse l'ultima senza l'insegnamento di una lingua straniera (ma in compenso, pur essendo una scuola assolutamente ordinaria, con lezioni settimanali di canto e balletto), mi ritrovai alla scuola speciale N°10 (ora N°1225) ad indirizzo francese, dove avevamo lezioni settimanali di matematica, scienze, storia, eccetera in francese, oltre, ovviamente, a quelle di lingua. Fu lì che conobbi il padre di una mia compagna di classe, convinto che fosse italiano, visto che il suo italiano era decisamente migliore del mio. Era invece assolutamente russo (ebreo, ma questo, a differenza dell'epoca attuale, non importava a nessuno), ed era il segretario di URSS–Italia ed amico di mio padre.
All'inizio degli anni '80 sua figlia, appena sposata, morì di meningite fulminante, poco più che ventenne. Lev non si riprese più. Quando, nel 2003, su richiesta di mio padre, gli portai a Mosca un numero di Slavia in cui quest'ultimo ricordava un episodio della loro giovinezza, egli per prima cosa mi portò a visitare la stanza della figlia. Soprattutto, ricordo due busti della figlia a grandezza naturale, uno in marmo, l'altro in bronzo.
C'è qualcosa di innaturale, quando i figli muoiono prima dei genitori. Contro natura.
Ma torniamo a Stanislav Sulejmanov.
– Sì sì, Voroncov e Kapalet, ma… chi era il suo interprete?
E' qui che la sua sicumera, nel senso più benevolo del termine, ha vacillato. Mi rimarrà per sempre il ricordo di come spalancò la mascella: improvvisamente, ricordò anche lui.
Più di vent'anni prima, lui, promettente basso trentacinquenne del Bol'šoj, ebbe me, diciannovenne, come interprete. Lo ricordo, già canuto ma nel fior fiore, cantare alticcio su richiesta "O sole mio" e "Bella ciao" al ristorante. Ci fu però ben altro episodio che ci accomunò.
Eravamo in Toscana, più precisamente a Montecatini, dove otto anni dopo vissi per due anni in tutt'altro contesto, ed eravamo in un'osteria io, Stanislav Bogdanovič, Alfeno Biondi (segretario del comitato locale di Italia–URSS), Luciano Ajazzi, toscano anch'esso ma dell'Italia–URSS nazionale, e Viktor Voroncov.
– Che mangiamo?, chiese Luciano.
– Siamo nella Patria della bistecca alla fiorentina, risposi, ça va sans dire…
– Ma cammina, mica ce la fai!
– Luciano, vediamo di intenderci: io ne prendo due, di bistecche alla fiorentina; se non ce la faccio, me le pago da me, in caso contrario paghi tu, che tanto paga l'Associazione, quindi tu hai vinto in partenza.
Vinsi io, mangiando contro forza ed impiegandoci più di due ore, ma Stanislav Bogdanovič fu l'unico a sostenermi, mangiandone a sua volta una e mezza.
Cantò un po' ovunque, in giro per l'Italia, con me al seguito, ma rimase legato soprattutto alla Puglia ed alla provincia di Bari, dove coltivò amicizie fraterne per i successivi vent'anni, prima fra tutte quella con Giacomo Luccarelli.
Anche Viktor Voroncov l'avevo preso per italiano quando lo conobbi, proprio in quella tournée del 1981. Scoprii invece che era la prima volta che veniva in Italia: il suo italiano era frutto esclusivamente dei suoi studi in URSS. L'unica cosa che lo tradiva era l'assoluta assenza di qualsivoglia inflessione dialettale: sfido a trovare un italiano che non si porti dietro i retaggi della sua regione di provenienza. Dirò di più: tutti i compagni di studio italiani di mio padre dell'università di Mosca hanno trasferito nel loro russo le loro inflessioni, generando un effetto davvero straordinario, tra romano, napoletano, bolognese, toscano, siciliano, lombardo.
Viceversa, anche Viktor mi fece i suoi complimenti, dicendo che non aveva mai conosciuto un italiano con un russo così impeccabile come il mio (non sapeva ancora che mia madre sia russa e chi io fossi), o anzi che ne aveva conosciuto solo uno, con una proprietà di linguaggio che compensava il suo accento. Gli chiesi di chi si trattasse e mi rispose che difficilmente l'avevo conosciuto, trattandosi della generazione precedente, un certo Dino Bernardini. Quando gli dissi che aveva davanti il figlio di Dino mi abbracciò commosso. Finì che, per gioco, alle tavolate ufficiali, io facevo i brindisi in russo, e lui mi traduceva in italiano.
Nel 1986 mi trasferii da Roma a Milano: fu Luigi Remigio, Gino, ad invitarmi a lavorare per l'Interexpo, all'epoca la Società che organizzava le più importanti fiere italiane a Mosca, da Agritalia a Strojitalia, da Upakitalia alle collettive italiane in ambito Inlegmaš et similia. Gino per me non è stato solo dapprima, a metà degli anni '80, un datore di lavoro e poi un cliente, ma un amico, fuori da ogni retorica. Un amico di famiglia: con mio padre si erano conosciuti all'università di Mosca nella seconda metà degli anni '50, ed avevano poi lavorato insieme a Praga all'inizio degli anni '60. Furono proprio Piero Casi e Gino a fare la colletta tra gli altri italiani presenti a Praga per comprarmi il passeggino.
Nel 2003, a Mosca, durante una presentazione di vini italiani, venni ingaggiato dall'Istituto per il Commercio Estero per la traduzione simultanea. La mia compagna di cabina, invece, fu ingaggiata proprio da Gino. Fu così che conobbi mia moglie.
Era una ragazza molto preparata, con un ottimo italiano, ma era molto tesa, perché la terminologia vinicola proprio non le apparteneva, considerando anche la sua giovane età. Io non usavo fare delle avances alle colleghe, ma giusto per farla sentire a suo agio le feci una vecchia battuta di mio padre, definendola mia "concabina". Ci siamo sposati meno di un anno dopo…
All'Interexpo a Mosca c'era anche Marisa Florio, ora da anni direttrice a Mosca della Camera di Commercio italo-russa. Il caso vuole che un altro compagno di studi di mio padre, Salvatore Pepitoni, mi mise in contatto con la GIZA di Reggio Emilia (più nota come "Gi & Gi"); cambiai quindi azienda. Poco tempo dopo, Marisa si sposò con Viktor Saviščev, che lavorava all'URSS–Italia con Voroncov e Kapalet. Sono tuttora considerati una coppia "storica", nella comunità italiana a Mosca.
La coincidenza impensabile è che il mio Stanislav Bogdanovič, di cui, come detto, avevo perso completamente le tracce, fu suo testimone di nozze.
In questi cinque anni, mi ha portato a livelli canori ben superiori rispetto a quanto potevo sperare, anche iscrivendomi all'Accademia Russa di Arti Teatrali (il vecchio GITIS) e facendomi esibire come baritono drammatico solista in alcuni teatri moscoviti. Ogni volta che mi sono lasciato prendere dallo sconforto per essere troppo in età avanzata per il canto professionale, mi citava Mario Del Monaco e, perché no, anche se stesso.
Il 1 giugno 2007, sessantunenne, è morto Stasik Sulejmanov, mio insegnante di canto; il 22 giugno 2007, a 77 anni, a Roma, è morto Gino Remigio.
Forse sono troppo coinvolto, per poter parlare di queste due persone per quel che erano, ma a me resta un senso di amaro in bocca, di qualcosa di non detto, di non terminato. Forse mi sento, ora, più vecchio di quel che sono, ma certo è che, esattamente come quando morì Lëva Kapalet, mi sento più povero, perché molto poteva essere ancora fatto, detto, scritto. E, nel mio caso, cantato. La speranza, immodestamente ed ingiustificatamente, è che io giustifichi in qualche modo gli anni a venire che mi restano da vivere, spero davvero molti, avendo una figlia di meno di tre anni, vivendoli nel modo migliore atto a dimostrare che l'aver conosciuto queste persone non sia stato insensato.
Mark Bernardini, "Slavia" N°4 2007